"Io sono sempre stato di sinistra non vedo perché oggi dovrei cambiare idea. Il popolo di Seattle non è comunista, è anticapitalista. Come non aderire alle sue ragioni quando il capitalismo è stata l'ideologia più spietata di questo secolo?"

Questa è una dichiarazione del regista Gillo (Gilberto) Pontecorvo a proposito del suo documentario “Un altro mondo è possibile” su il G8 a Genova. Gillo, essendo ebreo, conobbe sulla sua pelle il significato delle leggi razziali in Italia, infatti fu costretto ad espatriare trovando rifugio in Francia. Si iscrisse al partito comunista e combatté i fascisti durante la resistenza. Il suo lavoro di regista gli valse due candidature all’oscar ed un leone d’oro per il film “La battaglia di Algeri”, piccolo capolavoro neorealista degli anni 60. Film scarno, crudo racconta con uno stile documentaristico della presa di coscienza del popolo algerino oppresso dai francesi, con la musica firmata da Ennio Morricone che gioca un ruolo fondamentale enfatizzandone il ritmo.

55 anni dopo un trio indie di Atlanta forma un gruppo prendendo il nome dal titolo di questo film.

Già questa premessa deve farci amare gli Algiers; scrivere musica ribelle, affrontare tematiche come il razzismo, libertà, religione e giustizia, ancora oggi definibili come “scomodi” a me, ex giovane, di nomi del passato da accostargli ne vengono in mente tanti e solo di grandissimi.

Musicalmente no. Il fatto incredibile è l’originalità della loro proposta. Non conosco un termine specifico per descriverne la musica, si tratta di un misto di post-punk, industrial, soul, gospel, noise…

Ma andiamo in ordine, Lee Tesche, Ryan Mahan e Franklin James Fisher muovono i primi passi ad Atlanta, Georgia, incidono il primo disco omonimo nel giugno 2015.

Prima traccia, “Remains”. Un organo tiene a lungo la stessa nota. Battiti di mani. Mmm Mmm. La voce (del reverendo, verrebbe da dire) di Franklin mi racconta che “l’uomo incatenato cantò in un sospiro I feel like going home", giusto per chiarire chi è il padre degli Algiers.

Ciò, cita Muddy Waters!!

La voce, il battito di mani, l’organo… Non sono in chiesa, ma sicuramente sembra di ascoltare una predica gospel. Un esordio con i fiocchi, monolitico ma assolutamente da annoverare tra i migliori in assoluto. Mi ricorda moltissimo un disco del 1975, anno in cui una cantante aprì l’album (Cavalli) con la frase: Jesus died for somebody's sins but not mine…

Due anni dopo esce il secondo disco, alla band si è aggiunto il nuovo batterista Matt Tong (ex Bloc Party). 2017 anno del voto sulla Brexit nel Regno Unito e l'elezione statunitense di Donald Trump. Mahan ha spiegato: "Questo album è stato registrato in un ambiente politico che fa crollare la crisi economica della fine degli anni '70 e l'incombente assalto del neoliberismo arciconservatore, attraverso Thatcher e Reagan, fino alla fine degli anni '30, un mondo lacerato dal nazionalismo fascista e dal potere bianco. Fantasie negli Stati Uniti e all'estero ".

The Underside of Power migliora le idee già presenti nell’esordio, gli Algiers si appropriano dello spirito della musica gospel attualizzandone il suono attraverso una personalissima rivisitazione. E’ un disco impressionante.

“Per noi è fondamentale non separare la musica dal suo contesto psicologico e storico”, dice Franklin James Fisher. La sua voce è profondamente soul, al pari di Marvin Gaye o Sam Cooke e crea un contrasto con i ritmi potenti suonati dalla band. Non è solo una questione di fondere generi musicali differenti, vale quel che i generi rappresentano e quali mondi riescono ad aprire.

Guardatevi come si muove sul palco “soul man” Fisher, improvvisa ogni tanto mosse di ballo in stile Motown, mentre Mahan si muove a scatti, come si trovasse a una serata Depeche Mode. Le due anime della band convivono e si amalgamo incantando l’ascoltatore.

“Le canzoni soft sono ancora più dolci e quelle arrabbiate ancora più dure”, spiega Fisher. Non ci annoiamo ascoltando Cleveland che sembra cantata da Marvin Gaye con sottofondo dei Suicide, oppure il funky travolgente della traccia omonima con cori in stile Temptation con l’aggiunta di tastiere gelide e voce soul, o Death March, ipnotica piena di new wawe anni 80. Che dire di Mme Rieux? Steve Wonder al piano…

Gli Algiers potevano limitarsi a riproporre le sonorità dell’esordio, ma sono andati oltre occupando uno spazio importante sia musicalmente che come testi, vero asse portante della band. Rende molto più chiaro (?) il tutto la dichiarazione di Mahan: “nella nostra musica il simbolismo del Vecchio Testamento si sovrappone al materialismo storico di Marx”.

I protagonisti di queste canzoni sono i morti. Sono i morti ammazzati dalla polizia di cui si fa l’elenco in “Cleveland”, sono le parole di Fred Hampton, attivista delle Black Panthers ucciso nel 1969 con cui si apre l’album.

Occorre aspettare ancora poco per il colpo finale, a gennaio 2020 esce There is no year, un album che stupisce e meraviglia.

Il loro universo musicale è in continua espansione, il risultato sono dischi - ossimori - taglienti e morbidi, pesanti e soft, caldi e gelidi, noise e soul, con vette sempre più alte. Spiritual degli anni 20 come Wait For The Sound , con la voce del sempre più bravo e ispirato Franklin che strazia l’anima si accompagnano a perle new wave come Repeating Night, dove la chitarra di Tesche si muove su modelli cari agli Smiths; compaiono meraviglie quando i fantasmi di James Brown a braccetto con Michael Jackson si mostrano in Chaka, melodia pop anni ‘70. Tutto si muove fortissimo quando la batteria dell’ex-Bloc Party Tong spiana con l’assalto hardcore di Void ricordando i NIN, ed è subito orgia punk che fa tutto a pezzi.

Non ci sono riempitivi qui ogni singolo brano ha la sua peculiarità, cito ancora la title track, che prende il soul e lo inchioda ad uno spiazzante wall of sound industriale figlio di Suicide “black”, veloce e lento, dolce e aggressivo…

Gli Algiers lo sanno bene e la miscela assassina di noise rock, soul, industrial, R&B e delizie post punk è qui riproposta riveduta e ulteriormente migliorata. Un tutto che suona nuovo come non mai, unico e volto a restare impresso, necessario come mai prima d’ora.

Gennaio 2020, There is no year… Titolo sinistramente preveggente, uscito all’alba dell’anno più incredibile toccatoci in sorte in questo secolo che sfida a inventarsi le distopie più improbabili della realtà stessa. L’anno che non c’è, il 2020, in copertina un uomo che precipita…

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