Un blues alla fine del mondo. Dal cuore della terra.

For some people, when you say “Timbuktu” it is like the end of the world, but is not true. I am from Timbuktu, and I can tell you are right at the heart of the world.
AFT

Certo non sarò stato il solo che, mettendo sul piatto il secondo, omonimo, disco di Ali Farka Toure, restò stupito dall’incontro.
Da un musicista del quale non sapevo nulla, tranne che provenisse dal Mali, non mi attendevo quella strana forma di blues, generato da una improbabile strumentazione acustica.

Il successivo The River (1990), dove il nostro elettrificava la sua personale versione di una musica che eravamo abituati a considerare esclusivo retaggio dell’altro capo del mondo (e che vedeva ospiti anche alcuni membri dei Chieftains) non fece che accrescere l’interesse nei suoi confronti.
Passarono un altro disco (The Source) e quattro anni, prima che il suo nome, grazie alla collaborazione con Cooder, venisse proiettato in una zona più illuminata e visibile dello sterminato mercato delle musiche.

Nel 1994, infatti, vide la luce “Talking Timbuktu”. E fu Grammy Award (’95)

Santa Monica, Mali
A Santa Monica, Ry Cooder ed Ali Farka Toure, che si erano conosciuti un paio d’ anni prima, avevano radunato intorno a sè un manipolo di musicisti fidati, immersi nella proverbiale atmosfera che l’americano è in grado di creare.
Un’atmosfera che consente ad ogni singolo suono, al timbro di qualunque strumento, di respirare. In una combinazione di raro equilibrio che risulta magicamente naturale, ma che è piuttosto rara. Come molte cose apparentemente semplici.
Ed è l’atmosfera nella quale anche noi scivoliamo, lentamente, durante l’ascolto di questo disco.

Souvenirs? No, grazie.
Composto da dieci brani, tutti a firma Toure e cantati in quattro lingue (Songhai, Bambara, Peul e Tamasheck) rappresenta un esempio illuminante della mistura chiamata world music. Ma è definitivamente distante dai tentativi, più o meno riusciti, di far convivere tecniche e attitudini “moderne” con frammenti di culture musicali altre, spesso col solo intento di proporre esotici scenari sonori per turisti svogliati. Come ci capita di essere, consumando tanto di tutto, musiche comprese.
Distante dai souvenirs “world” per l’attitudine del musicista americano, dimostrata nel corso degli anni, di entrare in sintonia con lo spirito della materia che manipola.
Per il terreno sul quale avviene lo scambio. Quel “blues”, venato di altre malinconie, generato da altri spazi, suonato con altri strumenti, che però attraversa agilmente gli oceani, che parla davvero una lingua immediatamente comprensibile.

Le canzoni del griot
Il disco si apre, sulle note della chitarra di Ali Farka, con il brano “Bonde”.

E l’inconfondibile voce del griot si snoda sul tappeto sinuoso srotolato dalle congas del fido Oumar Toure, le quali assecondano la reiterazione circolare che sarà una delle cifre del disco.
Alla seconda traccia, “Soukura”, anch’essa introdotta da poche note della chitarra di Ali Farka, dalle percussioni e da un coro che, soffice come un’ eco della voce solista, percorrerà tutto il brano, cediamo alla sensazione di trovarci in un luogo accogliente dove si rivela naturale abbandonarsi al potere ipnotico della musica.
Che ci offrirà momenti caratterizzati da sonorità più “etniche”, affidate ai tre musicisti africani (Sega, Sanga) affiancati dalla discreta e fluida presenza di Cooder (Gomni, Keito) o adagiate sul ritmo ondeggiante di una danza (Lasidan). Ed altri nei quali l’anima blues sarà più esplicita, come in “Amandrai” o in “Al Du”, quest’ultima impreziosita dalla viola di Clarence Brown, che aggiunge un ulteriore sapore alla trama tessuta anche dal basso di John Patitucci e dalla slide di Cooder, che in questo brano sfodera anche un inatteso mandolino.
Con "Diaraby", un tradizionale arrangiato da Ali Farka Toure, Cooder congeda i suoi ospiti e resta solo con i tre musicisti africani per chiudere in bellezza un disco semplicemente perfetto.

Un mare che non c’è
La prima volta che giunsi al termine del piccolo viaggio quasi immobile che l'ascolto di “Talking Timbuktu” rappresenta, andai a consultare l’atlante per sincerarmi della posizione del Mali sulla cartina.
Perché qualcosa di dolente e dolce percorre il disco, una sensazione di spazi dilatati, liquidi e sospesi, una ciclicità che pare mutuata dal movimento delle onde…
Ricordavo bene: il Mali è circondato dalla terra d’ Africa e non ha alcuno sbocco sul mare.
Ma, in fondo, era solo una delle possibili magie che questa musica semplice è in grado di generare.
Musica proveniente da un luogo situato alla fine del mondo.
Ma con le radici affondate proprio al centro del suo cuore.

Talking Timbuktu
World Circuit 1994

Ali Farka Toure: vocals, acoustic and electric guitar, njarka
Ry Cooder: acoustic and electric guitar (slide and vox), cumbus, electric mando-guitar, acoustic toy guitar, mbira, tamboura, mandolin, bass guitar, marimba, accordion sample
Hamma Sankare: calabash, chorus vocals
Oumar Toure: congas, chorus vocals, bongos
John Patitucci: acoustic bass, bass guitar
Jim Keltner: drums
Clarence “Gatemouth” Brown: electric guitar, viola

Ho evitato di accennare all’iconografia che accompagna solitamente la figura di Ali Farka Toure, che costruì il suo primo strumento (una sorta di liuto ad una corda) ricavandolo da una scatola di sardine. Vi consiglio però la lettura di una breve intervista, del 2001, che trovate in “more info”, con altre informazioni che consentono anche di comprendere meglio il contesto nel quale questa musica si origina. E l’ascolto del suo ultimo disco, “In the Heart of the Moon”, uscito nel 2005, quasi completamente strumentale, realizzato in compagnia di un altro grande musicista del Mali, il maestro di kora Toumani Diabate (disco consigliato “Djelika” – Hannibal 1995)

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