Alice Cooper: il grande sbaglio di chi pensa di intendersi un po' di rock. Conosciuto da questi nostri amici per una manciata di singoli e video cromati partoriti tra il 1989 ed il 1991, quando mamma MTV dettava i tempi dei loro amori musicali, ed al massimo ricordato per i suoi trucchetti di scena, ghigliottine, pitoni, maschere e sangue. Chi invece si è interessato più approfonditamente all'artista dietro la maschera (Vincent Damon Furnier all'anagrafe) sa che molto di buono lo aveva già fatto negli anni settanta, prima di attraversare il periodo più buio della propria carriera a cavallo del 1980, per poi risorgere con molti altri lavori che lo hanno reso un personaggio fondamentale e difficile della scena rock mondiale.

È infatti molto complicato trovare un minimo comune denominatore nella carriera musicale di questo ormai anziano ex alcolista dell'horror rock, tranne le etichette che i giornalisti gli hanno via via rifilato. Quest'ultimo lavoro non fa eccezione, anzi, se si vuole, è ancora più ricco di sfaccettature che in passato, e questo nel bene e nel male. Si passa senza soluzione di continuità da un sotto genere musicale all'altro, mantenendo comunque una solarità di fondo non comune ad alcune delle sue uscite precedenti, più oscure o prettamente rock.

Qui invece si salta allegramente dalla ballata iniziale con voce filtrata, "I Am Made Of You", all'operetta comica satirica da varietà di "Last Man On Earth" in stile Tom Waits, al sanguinolento rock da discoteca di "Disco Bloodbath Boogie Fever", per finire al metal rallentato di "When Hell Comes Home". Questo per parlare degli episodi migliori, su cui a mio avviso spicca "I Gotta Get Outta Here", nella sua semplicità un rock orecchiabilissimo dalle venature country che si attacca alla parte più demenziale del tuo cervello e, posta nel finale, tiene alta l'asticella del giudizio complessivo.

Nel frattempo il garage pop sporcato di blues di "Runaway Train" ed il rockabilly di "Ghouls Gone Wild" avevano fiaccato parzialmente la costanza nell'ascolto a causa della loro troppo manifesta leggerezza e banalità, in un disco come già detto che non ne fa difetto di suo.

I fan più stretti di Alice Cooper avranno già notato che fin qui non è stato fatto alcun cenno all'origine del titolo del disco ed al suo essere un ideale seguito del pezzo pregiato della discografia del cantante, ovvero "Welcome To My Nightmare", dadato 1975 e nota rock importante di quell'anno assieme alla nascita degli Iron Maiden ed all'uscita di "Wish You Were Here" dei Pink Floyd. Scelta consapevole e voluta in quanto i contenuti delle liriche, seppur divertenti, nulla aggiungono alla trama del precedente disco e sono spesso solo un pretesto x andare avanti nella narrazione e dipingere piccoli quadretti orrorifici e bizzarri, in cui il maestro di cerimonia si accompagna, come al solito, con ospiti dalla fisionomia musicale contrastante come i singoli brani a cui partecipano.

Patterson Hood, preso in prestito assieme alla sua chitarra dai signori del country rock Drive-By Trucker, un Rob Zombie che non ha bisogno certo di presentazioni, il fido Kip Winger ai cori e la spiazzante stellina pop dance Ke$ha (che nonostante tutto convince in "What Baby Wants") formano una squadra stramba e improbabile, come improbabile sembrava la riuscita di questo lavoro dopo i primi ascolti. Ma, come i nostri amici di cui parlavamo all'inizio, è facile commettere errori quando si parla di Alice Cooper.

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