Mamma, i critici musicali e i benpensanti (figure queste ultime due che di frequente tendono a coincidere) mi hanno da sempre insegnato che gli extended play, i cosiddetti ep, altro non sono, spesso e volentieri, che produzioni già dozzinali, figlie di operazioni pubblicitarie a dir poco avventate.
No ma tranquilli, non è questo il caso! No perché Sap non è una raffazzonata da ultim’ora, né un diorama del music business!
Siamo nel lontano Marzo 1992 quando la Columbia Records da alle stampe questo piccolo prodigio.
Allora, era Seattle l’epicentro della creatività, dello style e dei bigliettoni verdi.
Gli spartiti dei Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden eran già sulle bocche (e sui microfoni) dei più e i loro lp risuonavano h24 dalle stanze di un’intera generazione di adolescenti disincantati e in cerca di chissà cosa..
Solo Staley e C. a sto punto mancavano al brindisi.
Facelift, l’album predecessore, benché ruvidissimo e immaturo, lasciava ben sperare, ma, quando meno te l’aspetti, le radio del nord-ovest cominciano a girare un grunge mai sentito: a decibel smezzati, acustico e di un’emotività spropositata, mai udita.
Il sound “party e culi” degli 80’s è oramai lontanissimo, ma distante è già pure l’isteria della prima ondata “sporca”… lavori più barocchi come Jar of Flies o più studiati come gli Unplugged di metà decennio, non più che chimere.

“Brother”, l’open track di Sap, è un inno all’amicizia. La malinconia, da subito avvolgente, è il tema centrale di questa ballata dalle sfumature tribal-blues. Layne e Jerry iniziano a corteggiarsi senza sosta registrando quegli intrecci vocali, impareggiabili e imperdibili, che diverranno il vero marchio di fabbrica di tutta la produzione della band. L’atmosfera è sofferente e dimessa ma sospesa, perlomeno fino a quando un lamento condiviso ci confessa

Sei sempre stato così lontano
Conosco questo dolore, dunque non scappare via
Come facevi di solito

autobiografico? Ai posteri, larga sentenza…

Arriva il turno di “Got Me Wrong”, il brano, a mio parere, di minor livello dell’opera non tanto da un punto di vista tecnico quanto emotivo. Troppo grunge direbbe qualcuno, troppo poco grunge direbbero altri (“vacci a capì qualcosa co’ sto grunge”).
L’elettrica torna a farla da padrone e la sezione ritmica Kinney-Starr a picchiar duro. L’armonia è al limite del barcollante, le melodie quasi stonate e, come se non bastasse, la song stoppa all’improvviso… eppure, ha comunque un suo perché!

Siamo già a metà dell'opera, sembra assurdo, ma il bello deve ancora arrivare…

“Right Turn” è un semiacustico d’autore. Firmata Alice Mudgarden, vede la collaborazione, e da qui il nome, di Chris Cornell dei Soundgarden e di Mark Arm dei Mudhoney. La prestazione del primo è pazzesca, un crescendo iperbolico fino ai limiti dell’asfissia, l’altro ha dei medio-bassi da paura, anzi da oltretomba! I tre vocalist gigioneggiano sulle note di un cantato dolce amaro, ruffiano quanto basta, dando vita ad un’insaziabile corale che fa tanto jam session o, come suggerito da qualcuno, spiaggiata tra vecchi amici…
p.s. scordatevi biondone a stelle e strisce e calienti bagni di mezzanotte.

Il disco va a morire con “Am I Inside”… nel vero senso del termine. Lo spazio all’improvviso si dissolve così come il tempo, per sempre! Staley appena sorretto da un’acustica tremolante sussurra

"Loneliness it shadows me, quicker than darkness
Crawls to the surface of my skin, visibly surrounded by it
Black is all I feel, so this is how it feels to be free"

Fa freddo… la deriva escatologica del pezzo è apocalittica, incorporea a tratti. Nessuna speranza, nessuna illusione è oramai più contemplata. Solo sul ritornello, per un istante, effimero certo, il brano sembra risorgere… per sprofondare di nuovo nell’oscurità fino a quando il silenzio prima e la dimenticanza poi dissolvono il tutto.

Ascoltare Sap, ora come allora, non è cosa da tutti.
Ci sono persone che, fortuna per loro (dipende), non lo incontreranno mai!

Giudizio: incompreso, emozionante…

satellite.

Carico i commenti... con calma