“Life's such a bitch, isn't it?
When you have a baby,
They throw you a party
And then when you die
They get together for a cry”

Da “Voicemail for Jill”

Amanda Palmer è una ragazza da stimare per varie ragioni: ha avuto una carriera musicale senza alcuna logica, fatta di alti e bassi, ma sempre e comunque onesta, ha lasciato il mondo delle case discografiche per creare un filo diretto con il suo pubblico che la supporta a livello finanziario tramite il sistema dei Patreons (forse il futuro per gli/le artisti/e meno mainstream), fa uscire tutto quello che le passa per la testa (anche qui con alti e bassi) dimostrando non poco coraggio.

Così dopo i/le Dresden Dolls, il cantautorato sofisticato di “Who Killed Amanda Palmer”, il glam-rock di “Theatre is Evil” e millemila divertissements (ascoltatevi “Map of Tasmania”, una sublime ode alla vagina basata su quattro accordi di ukulele), arriva “There Will Be No Intermission”, sulla cui copertina la Palmer ci appare come una combattente nuda con tanto di spada.

E la foto di copertina non mente: Amanda ha abbassato tutte le difese e ci consegna una serie di canzoni di folk pianistico che hanno come punto in comune quello di essere istantanee in presa diretta in cui la cantautrice ci fa entrare nei suoi pensieri, senza filtri, senza eliminare le cose troppo banali e/o complesse, senza paura di non essere compresa. Amanda Palmer ci mostra come le nostre vite siano legate da un filo invisibile di emozioni ed eventi: paure, piccole gioie, lutti, nascite e malattie fisiche e mentali.

A livello musicale, l’album sembra quasi una fedele trasposizione dei live acustici in cui la Palmer si consuma le dita sul pianoforte, col suo modo energico di suonare. I pezzi sono tutti abbastanza lunghi (quasi tutti sopra i quattro minuti e trenta) e si basano su intricate trame di pianoforte con l’inserto di pochi altri suoni. Non ci sono fronzoli e i primi ascolti possono essere difficili, tutto può sembrare abbastanza simile, ma non è così. Ogni pezzo ha una sua identità e una sua atmosfera.

Pezzi come “The Ride”, “Judy Blume”, “Machete” e “Voicemail for Jill” sono tra i migliori che la cantante abbia mai proposto e i testi sono piccoli estratti di brutale verità che richiedono un ascolto profondo, tempo e dedizione. I vari livelli di ogni singolo brano si svelano col tempo e ci portano al fulcro di ogni singola composizione.

Amanda Palmer si trasforma così in una moderna cantastorie e crea un suo genere molto personale, che non somiglia a niente e nessun altro e che poco somiglia anche a tutto quello che ha fatto prima. Forse, superata la soglia dei quaranta, la cantante ha trovato la sua voce, un modo unico e personale di incanalare la sua arte. E può essere che la meta di tutto il suo percorso fosse un “semplice” (che poi così semplice non é) ritorno all’essenziale, al proprio corpo nudo, alla voce e al pianoforte.

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