Non hanno il tiro country rock degli Eagles, neppure il lirismo di Crosby, Stills, Nash & Young. Non hanno la delicatezza da grandi melodie della west coast di James Taylor o che so la profondità dei testi di Joni Mitchell. Il problema alla fine, scoprii molto più avanti, è uno solo: si chiamano America ma sono inglesi. È questa discrasia che dura da 50 anni a far sì che questa anomalia musicale abbia una storia a suo modo affascinate. Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek sono figli di militari americani di stanza in Inghilterra. Due in America ci sono nati, ma va beh, manco la ricordano. Uno è proprio nato in Inghilterra.

Va da sé che per tre studentelli imberbi cercare di scrivere grandi melodie da spazi americani nella campagna inglese attorno al liceo di Watford all’inizio degli anni ’70 non doveva essere poi così facile. Se poi in quegli anni così particolari si fa la scelta atemporale di non volerci infilare dentro temi di attualità o politici l’impresa diventa ancora più difficile. La perfida Albione in quegli anni era la patria del triunvirato dell’hard rock per eccellenza. Emergevano le tirate proto metal dei Deep Purple, la cupezza doom dei Black Sabbath, il blues elettrico dei Led Zeppelin. Insomma cercare di fare le canzoncine con gli intrecci vocali e le storielline da road movie non era facile. Io gli America però li incrocio alla fine della loro seconda vita. La prima, quella del grandissimo successo, quasi inspiegabile, va dal 1971 al 1977.

Coincide con il contratto con la Warner Bros. È quella della serie di dischi che iniziano tutti con la lettera H (tranne il primo omonimo), che li vede collaborare niente meno che con sir George Martin che produce loro un paio di dischi. Una storia iniziata con una botta di culo. Perché il primo disco, America, era uscito inizialmente senza la canzone simbolo. Si perché “A Horse with No Name” era stata ignorata. Anzi era solo un abbozzo, si intitolava “Desert Song”. Era una canzoncina tutta basata su un strunning di Mi minore e Re 6/9, due accordi facili facili. Sarà Ian Samwell, cantautore e chitarrista e produttore del primo disco, a capire che quel pezzo aveva delle potenzialità e a far ristampare il fallimentare esordio con la canzone e a cambiare la storia ai tre ragazzi che vanno subito al numero 1 in America (un po’ come tornare a casa, in una casa mai vista, il secondo dischi infatti si intitolerà Homecoming). Un po’ come successe con “Sound of Silence” di Simon & Garfunkel, ma questa è una altra storia.

E una altra storia è anche come arrivo io agli America, innamorandomi di uno dei loro dischi forse più inutili. Quel In concert, uscito nel 1985 per onorare la fine del contratto che segnava la loro seconda vita, quella del contratto con la Capitol, quella a due voci invece che tre, perché per strada si erano persi Dan Peek, che aveva mantenuto fede ad una promessa fatta a Dio e si era dato alla musica cristiana. Il fatto è che gli America non avendo una vera terra nel corso della loro storia hanno avuto fiammate di successi qua e là per il mondo. In Germania, per dire con la colonna sonora di The last Unicorn era stata un bel successo. Ma tra il 1982 e il 1984 il successo gli arride in Italia. Il motivo è abbastanza semplice. Due canzoni, invero molto belle, vengono utilizzate da mamma Rai come sigle di programmi televisivi. Una è “You can do Magic”, che è stata il loro vero ultimo successo anche negli Stati Uniti, e una “Survival”, che era il pezzo portante di Alibi, il loro disco del 1980, quello che forse ha più bucato in Italia. Deve essere stato stampato in centinaia di migliaia di copie in vinile nel bel paese. Non c’è bancarella del vinile usato dove non lo trovi a pochi euro, spesso consulto dagli usi con quella copertina che vorrebbe essere inquietante ma è solo kitsch, una testa di bambola staccata in primo piano in un grande deserto.

Ecco io ho incocciato gli America lì. Quando facevano da sigla ai programmi serali di Rai 2 condotti tipo da Sammy Barbot, quello di “Aria di casa mia”, si lui. Programmi che utilizza pure “Every little thing she does is magic” dei Police come sigla ad un certo punto. Nel 1985 quindi per chiudere il contratto con la Capitol stampano questo inutile In concert. Un live che trovai in cassetta ad un banchetto di un ambulante abusivo. Un disco brevissimo, 33 minuti. Registrato al teatro Arlington di Santa Barbara il 1 giugno del 1985. Ha un paio di particolarità, è il primo disco degli America ad essere pubblicato anche in CD ma anche la loro prima uscita dal 1971 a non riuscire ad entrare nelle chart americane. Nessun singolo viene estratto dal disco e non riporta neppure tutto il concerto in questione lasciando fuori almeno una canzone che avrebbe dovuto entrare: “Sandman”. Dieci pezzi. I due che mi avevano fatto conoscere gli America, i successi dell’epoca Warner Bros come “A Horse with No Name”, “Ventura Highway” (altro pezzo iconico, che dà il nome al loro sito web), la ritmata “Sister Golden Hair”. E poi le bellissime e delicate “Tin Man”, “Company”, “I Need You” e “Daisy Jane” e per finire la adrenalinica (parlando di America neh) “The Border” che era stata al centro di un caso col loro produttore dell’epoca, Russ Ballard, che cofirma il pezzo. Il produttore infatti si era fatto prendere la mano e aveva scritto gran patte dei pezzi che avrebbero dovuto comporre Your Move, disco del 1983.

Ma soprattutto in “The Border”, da bravo inglese, aveva inanellato una serie di luoghi comuni sul mito americano che costrinsero Bunnell a riscrivere il testo. Anche la copertina del disco era molto anonima. Una serie di strisce rosse, a mo’ di neon da sala da concerti, che fanno da sfondo al caratteristico logo degli America, il nome della band tracciato in un ellisse con la A svolazzante e il titolo In concert in alto scritto in piccolo.

Eppure anni dopo quando ho trovato il vinile consunto su una bancarella dell’usato lo presi al volo come se fosse una perla da collezione, in realtà il tipo del banchetto me lo rifilò a 5 euro ben felice di levarselo da dosso (facendo in modo di farmi trovare altri dischi loro nelle volte seguenti… furbetto). Lo sento molto spesso. Da un ascolto in sti giorni è nata l’idea della recensione, alternandolo con la raccolta del 1975 che mette assieme tutti i successi del periodo Warner. La carriera del gruppo è continuata, tra morti, cadute e risalite, dischi molto anonimi, contratti discografici disparati. L’ultimo disco in studio si intitola Lost & Found ed è una raccolta di pezzi scartati dai dischi degli anni 2000.

Li trovi sempre in tour nei locali da qualche centinaio di posti negli states e chiunque abbia preso in mano una chitarra ha provato a strimpellare i due accordi basic che compongono “A Horse with No Name”, spesso non sapendo neppure di chi fosse la canzone. Condanna che capita a chi scrive canzoni che vanno oltre la vera portata dell’autore. Quella di non essere davvero mai ricordati.

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