"Knuckle Down" ('05) va fatto rientrare in quel "nuovo corso" che ha caratterizzato la discografia della "piccola (punk)folksinger" di Buffalo dopo la separazione dalla band che l'aveva accompagnata fino al buono (ma, a mio avviso, non eccezionale) "Evolve" di un paio d'anni prima. Un nuovo corso per certi versi più intimista ed essenziale, fatto di atmosfere pacate e sfumate, che, se da un lato rimane orfano di quelle virate funky-soul che avevano caratterizzato alcune delle precedenti produzioni, dall'altro esalta ancor di più quel binomio inconfondibile di chitarra e voce che ha fatto la fortuna della giovane cantautrice.

Si badi: né "Knuckle Down" è un disco integralmente acustico (visto l'apporto di Tony Sherr alle chitarre elettriche), né la Di Franco rinuncia del tutto al gusto e al tatto di altri musicisti (menzione doverosa per il batterista/percussionista Jay Bellerose). È proprio in tale quadro, anzi, che emerge il fondamentale apporto del contrabbasso di Todd Sickafoose, "presenza" spesso impercettibile, disposta a rimanere il più delle volte nelle retrovie del pentagramma, eppure imprescindibile contraltare per i (quasi) monologhi chitarristici della Di Franco. A cambiare è piuttosto la "dimensione" stessa del disco, incentrata più sul calore di composizioni dal profilo apparentemente basso (ma ricche di feeling), che non sul groove delle ritmiche o sulla ricchezza degli arrangiamenti.

Nasce così una musica che sembra fatta per essere sfogliata come un album di fotografie, canzoni come fermo immagini di emozioni, stati d'animo e ricordi. Talvolta bastano poche note, arpeggi sussurrati, spazzole che accarezzano il rullante, e un violino (l'eccellente Andrew Bird) su cui regolare il respiro: note scritte su un aeroplano di carta da (in)seguire con gli occhi, mentre viene sospinto dal vento ("Studying Stones"). Note strappate a forza dal ventre di una cassa armonica, mentre un piano lontano, quasi in disparte, insiste per voler danzare ("Callous"), o un timido sgocciolare di armoniche che riempiono il silenzio ("Parameters"). Ma c'è anche il tempo per lasciarsi coinvolgere da episodi più blueseggianti ("Modulation", "Seeing Eye Dog", "Minerva") o frenetici (su tutti l'opener "Knuckle Down", con quella chitarra balbuziente, maltrattata e schiaffeggiata, manco fosse uno strumento percussivo), o per raccogliere un po' della gioia che pervade gli episodi più solari ("Sunday Morning").

Ma, ancor più che la musica, è la voce della stessa Ani a risultare evocativa e coinvolgente. Versatile al punto da trovarsi a proprio agio non solo nel pathos intimista del recitativo "Parameters", ma anche nel sarcasmo risentito di "Manhole" ("But you can't fool the queen, baby Cuz I married the king"), davvero capace di renderci spettatori partecipi di racconti e frammenti di vita, ora dolorosi e sofferti, fatti di incomprensioni e cinismo, ("Callous"), ora "tiepidi" e accoglienti, intrisi della serena nostalgia dei ricordi di una bambina, persi sulla strada tra la scuola e la chiesa ("Paradigm"). Una voce che sa vibrare e ipnotizzare, come la fiamma di una candela che riscalda, senza scottare. Illumina quel tanto che basta per poter guardarsi allo specchio, ma con gentilezza, tenendo in ombra le rughe.

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