Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è sentito un pesce fuor d’acqua, magari acqua dolce, potendo scegliere. Antonio si è sentito proprio così, dopo aver perso la memoria e dopo aver vagato chissà dove per cinque anni, tornando in definitiva al punto di partenza.

Avete presente quei film che, come un vecchio disco, rimangono un oggetto un po’ impolverato ma sicuramente di culto? Poi prendete l’attore protagonista, da anni affermato sui palchi e sulle pellicole e il gioco è fatto.

“Uomo d’acqua dolce” è un film romantico ma anche malinconico, esilarante e tragicomico, infantile ma nel contempo geniale.

Era il 1997 e la carriera di Antonio Albanese iniziava a brillare seriamente, dopo due film e il successo ottenuto grazie ai personaggi portati sul tubo catodico tramite la genialità di “Mai dire Gol”, programma di Italia Uno che l’attore e regista lecchese ha lasciato nel 1995. Tra i vari personaggi e maschere portate in scena, viene scelto il più sornione e completamente comico, Epifanio, scaraventato in questa pellicola che vede Albanese per la prima volta seduto in cabina di regia.

Accompagnato dalla musica di Nicola Piovani e potendo vantare la presenza di Vincenzo Cerami alla sceneggiatura, “Uomo d’acqua dolce” è una tragedia in salsa comica, che stupisce e diverte anche e soprattutto per i bravi interpreti.

Quando Antonio tira fuori dalla tasca i funghetti (abbondantemente scaduti) e li annuncia con entusiasmo, senza rendersi completamente conto di aver perso la nascita della piccola Tonina e il rapporto con la moglie Beatrice, ci diverte e ci lascia l’amaro in bocca. Ma è con la scoperta dell’intruso Goffredo, che inizierà la parabola comica inarrestabile del nostro eroe, che non ricorda bene il passato ma comincia a vedere delineato il proprio futuro.

Mitica la scena della rincorsa del germano reale nel parco o la piazzata nel negozio di dischi (il mitico Rasputin di Milano, ormai chiuso da anni), dove il protagonista si scatena, tra goffi balletti e domande compulsive. Oppure l’appuntamento organizzato per Antonio da Goffredo con la collega Patrizia, per provare ad allontanare lo smemorato padre dalla famiglia che vuole riconquistare ma che oramai è prerogativa del tenore barbuto.

Un po' Rowan Atkinson in “Mr.Bean”, un po' Roberto Beningni in “Non ci resta che piangere”, Antonio attrae e allontana chiunque si trovi sul suo cammino. Rovina il frac prestatogli da Goffredo durante la cena con Patrizia, a metà della quale si lancerà, chitarra alla mano, in un medley improvvisato sulle quattro stagioni, stranendo l’intero locale ma facendoci ridere a crepapelle. Oppure pedinerà Beatrice e Goffredo durante il loro weekend romantico, portando avanti e indietro un barchino a remi sulle acque del Lago di Como. Il tutto mentre, senza farsi vedere, proverà a conoscere la piccola figlia Tonina, costruendo di fatto un affettuoso rapporto e sopperendo a un’assenza imperdonabile.

Quando sembrerà tutto perduto, il colpo di genio riporterà il sereno e manderà in gol il prode Antonio. Il monologo finale è da sentire e risentire. Nella sua comica semplicità, racchiude l’intera essenza primordiale del protagonista, un simpatico smemorato che prova a riprendersi la vita che aveva perso, senza in definitiva dare troppe spiegazioni a sua discolpa.

Il personaggio omonimo di Antonio Albanese ci ricorda un po’ il cinema muto ma anche quello trash comico, con tanta riflessione sullo sfondo. Con una trama agrodolce ci ha fatto e continua a farci divertire, dimostrandoci che anche coloro che partono sconfitti, con tanto impegno e senza arrendersi mai, possono fare grandi cose. Riuscendo anche a divertire e divertirsi. Cosa che non guasta, in questa vita fatta anche di imprevisti.

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