Sulla tua copia di "The Week Never Starts Round Here" c'era un discreto stato di polvere e la cosa in fondo ti rendeva parecchio felice, era un buon segno. Ma da qualche giorno è stata scrollata via tutta, il cd è finito di nuovo nel lettore dopo tanto tempo e tu hai preso coscienza che è veramente finita. Ed allora tanto vale scriverci due righe per sublimare la frustrazione e i sensi di colpa.

Una sorta di concept-album sulla condizione transitoria e intrinsecamente fallimentare di ogni relazione sentimentale, a pensarci bene "The Week Never Starts Round Here" è un disco irrimediabilmente "brutto", nel senso estetico del termine: improvvisato, incostante e cacofonico, pervaso da una indolenza che avrebbe depresso anche Bukowski. Un sconvolgente disco d'esordio.

L'amore, così come ci siamo abituati a chiamarlo, si spoglia di ogni orpello romantico e tutto si riduce a relazioni fra uomini e donne fatte di esplosioni irrazionali, affetti, rancori, silenzi e incomprensioni. E sesso: quello "sporco", improvviso e passionale e quello, molto più frequente, meccanico e abitudinario.

Forse prima di allora nessuno aveva messo in musica questo vortice di situazioni in modo così crudo e immediato; gli Arab Strap lo avrebbero fatto da allora per i dieci anni a venire, rompendo convenzioni e taboo. E se negli album successivi le strutture musicali si fecero più solide e complete, rendendo gli ascolti decisamente più accessibili, qui ancora manca anche quell'aspetto e tutto risulta terribilmente spoglio e scostante.

"Coming Down" suona come i Mogwai prima dei Mogwai (le due band collaborarono strettamente in quel periodo e i rispettivi esordi sono quasi contemporanei) e apre un album che risente molto delle atmosfere post-rock ormai in auge in quegli anni.
Canzoni che gettano le strutture seminali della musica degli Arab Strap tra pseudo-ballate acustiche ("Wasting") e e le prime contaminazioni tra folk-rock, timbri elettronici e noise ("The Clearing"), che diventeranno poi una delle costanti dell'opera della band.

Il tutto concepito come colonna sonora per storie di ordinario squallore esistenziale di una generazione che ha buttato nel cesso miti e ideologie e vive disincantata le sue quotidianità davanti ad un bancone umido e appiccicoso di birra; un universo rigidamente maschile per cui l'altra metà del cielo rappresenta un campo di battaglia, talvolta piuttosto ipotetico, per nuove e vecchie conquiste, che si rivelano quasi sempre poco gloriose, specie dopo averle ottenute. Una lucida presa di coscienza di quanto improbabili siano i sentimenti, tra le sensazioni che si affollano mentre affondi il viso tra le gambe di una donna o nel disagio agrodolce di un'eiaculazione precoce. L'apologia di una filosofia di vita che sembra trovare un attimo di serenità solo nella pratica del cazzeggio fine a se stesso ("The First Big Weekend"), fatto di randagi vagabondaggi e devastazioni alcoliche di gruppo; che rifugge scientemente ogni assunzione di responsabilità, siano esse una gravidanza accidentale ("Kate Moss") o un la preparazione di drink troppo esotico ("I Work in a Saloon"). Quel lato sordido in ciascuno di noi, che ogni volta ci illudiamo di aver messo a bada per sempre, ma che poi riprende il sopravvento quando si resta soli con i cocci di un ego da rimettere insieme.

"I'll walk through this world making little girls happy. But not you, no, not you". Forse solo sciocche pose da improbabili tombeurs de femmes: ma tutti sappiamo quanto, in certi momenti, facciano bene all'anima e al proprio orgoglio ferito.

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