Dopo l'invettiva politica nel film "La caccia", Arthur Penn si è concentrato su una storia più canonica, attingendo direttamente ad uno dei "miti" della storia americana. Attraverso New Mexico, Texas, Missouri, Louisiana e Oklahoma, Bonnie Parker e Clyde Barrow hanno costruito la loro vita borderline e plasmato una delle pagine più conosciute e amate nella storia moderna americana, al pari di un'altra leggenda come quel Jesse James che ha avuto diverse rappresentazioni cinematografiche. Penn segue questi due e altri personaggi lungo le loro traiettorie criminali di fatto dando vita ad un vero e proprio film d'azione con una impostazione da road movie.

"Gangster story" (1967) potrebbe sembrare (e per certi versi lo è), un film "invecchiato male". Non c'è pathos e drammaticità nelle vicende narrate, ma una sorta di superficialità emotiva che può trarre in inganno lo spettatore, ma che in realtà è un lascito europeo che Penn decide di far suo: le influenze artistiche della Nouvelle Vague francese ormai erano arrivate anche oltreoceano e hanno contribuito a plasmare la visione con cui Penn ha costruito il suo film. I rapporti interpersonali sono vacui e quasi del tutto assenti. Clyde (Warren Beatty) e Bonnie (una meravigliosa Faye Dunaway) non sono mai realmente l'uno metà dell'altra, così come non esiste rapporto con il giovane Clarence (Michael J. Pollard premiato con l'Oscar), una sorta di figura grigia e impersonale a cui è difficile trovare una collocazione e uno scopo preciso. Ma ciò che Penn fa più suo delle lezioni "francesi", è quello stile documentaristico e quasi "asettico" che ha mosso i primi vagiti della Nouvelle Vague: in questo senso il binomio Clyde/Bonnie ricorda il rapporto scontro/incontro tra Michel e Patricia in "Fino all'ultimo respiro" di Godard, film manifesto della Nouvelle Vague.

Film di rottura nella carriera di Penn, questa pellicola è una sorta di ribaltamento della poetica penniana: nel precedente "The Chase" il suo sguardo si caricava di critica politica e sociale verso il moralismo formale di una nazione allo sbando, mentre quì Penn parte direttamente dall'epopea americana per mostrare senza indugio la violenza di quella stessa nazione. Penn si "limita" a raccontarci una storia senza indagare il retroterra culturale, sebbene sia un film ambientato durante la Depressione post 1929, ma ciò non gli impedisce di mostrare senza remore una violenza raramente vista fino a quel momento. Diverse sequenze (compresa quella finale) anticipano quell'esplosione di realismo che imperverserà poi negli anni settanta.

Penn ha costruito metà della sua carriera a cercare di ribaltare le caratteristiche basilari del generi hollywoodiani e "Gangster story" è parte integrante di questo processo. Nella sua struttura dal ritmo sincopato, nel suo rifiuto di mostrarci intimità e sentimentalismo, ma anche e soprattutto da un punto di vista tecnico. Invece di lavorare sugli espedienti narrativi, Penn si porta in anticipo sui tempi (perlomeno negli Stati Uniti), utilizzando un montaggio frenetico e soprattutto mettendo da parte il grandangolo per affidarsi a riprese a focali lunghe, schiacciando la prospettiva. Alcuni campi totali sulla splendida campagna americana sembrano dei quadri dell'Edward Hopper più "rurale".

Molti critici cinematografici si dividono riguardo questo film: secondo alcuni è il grimaldello che apre le porte alla New Hollywood, secondo altri l'onore spetterà due anni dopo a "Easy Rider". Certo è che Penn anticipa alcuni dei temi che troveremo successivamente nel film di Dennis Hopper: in particolare sembra precorrere i tempi l'immagine disinvolta di Bonnie, lei che chiede all'uomo di fare l'amore, lei disposta ad aprire la propria sessualità. La sua e quella dei suoi compagni della banda è una ribellione non anti-sistema alla "Easy Rider", ma la volontà delle giovani generazioni dei sixties di essere finalmente svincolati dalla famiglia (molti riferimenti sono disseminati per tutto il film). Ricercare una libertà assoluta. Perchè se è vero che il film è ambientato negli anni '30, è altrettanto vero che sembra una metafora delle tensioni generazionali dell'America dei '60.

Il quinto lungometraggio di Penn è un film per molti aspetti rivoluzionario nella storia cinematografica americana. Anticipa elementi tecnici e contenutistici che saranno poi largamente ripresi dallo sviluppo della New Hollywood. Oggi può apparire un film privo di profondità, quasi superficiale nel racconto, ma inserito nel contesto in cui è nato rimane uno dei capitoli filmici più innovativi e determinanti del futuro cinema statunitense.

Carico i commenti... con calma