Sono un po' fuori dai giochi per cui non saprei quale sia attualmente il livello di considerazione degli attuali auscultatori di musiche verso il metallo pesante/pesantissimo, tantomeno quello riservato agli svedesi Alle Porte, colonna portante del Metallo della Muerte scandinavo attiva già nel secolo scorso.

E' opinione comune tra gli aficionados del settore che il loro quarto lavoro, "Slaughter of the Soul" risalente alla seconda metà dei novanta, pur arrivando in un frangente nel quale il genere aveva abbondantemente detto [e ribadito] fino all'ultima macabra sillaba tutto ciò che aveva da dire, ha rappresentato uno tra i frangenti più riusciti del metallissimo forgiato nella vecchia Europa.

Dopo quel disco i nostri vichinghi corazzati decisero di stringersi la mano e appendere la ferraglia al chiodo.
Nessuno poteva chieder di meglio: chiudere in bellezza è cosa quantomai rara, preziosa e apprezzabile.

E invece la storia è nota ai truci seguitori della scena metallizzata continentale:
a seguito dello iato di due decenni abbondanti il chiodo a cui avean appeso corazze e mazze ferrate dev'essersi sbullonato dal muro e nel raccogliere la instrumentazione dal sordido pavimento si sono resi conto che avevano ancora voglia di suonare & scorribandare insieme.

Questo appena pubblicato risulta il secondo disco in quattro anni e vede l'allontanamento dello storico lead guitarist Anders Björler, per la cui sostituzione è stato chiamato tale Jonas Stålhammar: ovviamente non so minimamente chi sia ma ho scritto questa cosa solo per mettere in evidenza la notevole å col pallino sopra.

Se avete quel minimo di dimestichezza sindacale con il gruppo e il genere dovreste a grandi linee sapere cosa vi aspetta:

- la consueta ridda di vocioni brute dall'oltretomba che abbozzano melodie romanticamente purulente e cadaverose;
- chitarre robuste ultra-sature che si rincorrono (il loro fèlice trademark) a velocità più o meno forsennate;
- una sana sezione ritmica piena e pestona che congestiòna il suono negli eventuali anfratti silenti.

C'è da dire che il disco parte anche bene: il riffone micidiale della fulminante taitol trecch e la sinuosa linea vocale brutalmelodica rimanda dritta-dritta al loro (piccolo) capolavoro di cui sopra.
Quel sano tocco di asfittico romanticismo come solo i migliori esponenti Europei del settore sono in grado di dispensare.

Ti sembra di avere di nuovo vent'anni (di meno) e vorresti buttare giù a craniate la palafitta casalingua.
E questo è bello, ça va sans dire.

Ma le cose non stanno esattamente così: Tu ce li hai tutti sulla gobba e anche loro mi sa che non scherzano.

Ma la vera questione è:
potrà mai questo disco far scaturire la anomala scintilla scintillante (splendida splendente) che riesca nel mèracolo liquefatorio di San Gennaio ovvero fare la differenza in mezzo a un milione di uscite vecchie e nuove della medesima solfa?

L'onesto disco precedente, forse a causa della eccessiva ruggine accumulata nella lunga pausa, di certo non ne era stato in grado.

Questo sentimentale et cimiteriale nuovo manufatto pur suonando anche bello solido & variegato, quando va bene ricalca/ricicla più o meno sempre gli stessi giri senza apportare alcun significativo elemento di novità o soluzioni particolarmente lucide e intriganti: tanto vale riprendersi l'originale e continuare a sentire quello.

Mi rendo altresì conto che parlare di novità e commistione di idee in questo specifico ambito sulfureo é come parlare di corda in casa dell'impiccato.
Per cui mi taccio.

Insomma: forse sono io che col tempo sono diventato noiosamente ipercritico avendo divorato tonnellate di queste delicatessen ma del disco, a occhio (e soprattutto orecchio) non ne sarei del tutto persuaso.

Ai posterz degli Etdegheits l'arduae sententiae.

UH!

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