Non sono innovativi, non sono speciali, non sono dei mostri tecnicamente, non si distinguono nella massa, ma cavolo, sono dannatamente simpatici! Gli Atlas Genius sono un modesto progetto pop ideato e diretto da due fratelli di Adelaide. Considerato il quartiere di nascita del gruppo, questi due fratelli non avevano aspettative altissime riguardo al successo del loro primo album When It Was Now, il cui lavoro era durato ben cinque anni. Da semplici demo dalle melodie orecchiabili (Trojans) sono quindi passati a scrivere album in studio, ottenendo un successo che, se paragonato alle più celebri band del genere è di nicchia, ma che comunque è arrivato in modo inaspettato per il duo. Li avevamo lasciati con una buona prova composta di undici pezzi, ognuno dei quali suonava diverso dal precedente pur mantenendo grossomodo le stesse atmosfere e la stessa strumentazione. A distanza di qualche anno sono riusciti a migliorare anche la pecca della varietà degli strumenti a loro disposizione, incidendo un disco altrettanto interessante. Inanimate Objects è un secondo album ambizioso, che tende a spaziare tra varie forme di pop, rendendo bene l'idea della minima sperimentazione che i Geni hanno voluto tentare. Alla sua uscita ha fatto storcere il naso a molti per la sua banalità in alcuni punti (Refugees) e per l'introversione in altri (Friends with Enemies). Non nascondo che neanch'io ero all'inizio del tutto convinto di questo disco, ma dopo molteplici ascolti il mio apprezzamento è cresciuto esponenzialmente. La cosa che più mi ha colpito è stata la maturità con cui questi due ragazzi hanno saputo affrontare alcuni punti, primo fra tutti quello introduttivo (The Stone Mill), il quale dimostra che hanno finalmente imparato a legare un primo brano in sordina con crescendo strumentale su voce vellutata ad un altro più energico, potente e danzereccio quale il primo singolo Molecules. La loro evoluzione prosegue anche con la sperimentazione di nuovi stili (divertente la traccia di metà album Friendly Apes e ancor più la fresca The City We Grow, i cui archi sintetizzati non possono non ricordarci gli Smallpools, altra neo-band brit-pop di nicchia), anche se non mancano i momenti più movimentati (Stockholm e A Perfect End, quest'ultima nata a seguito di una sperimentazione electro con Big Data) e quelli riflessivi, forse mancanti nel primo album (Where I Belong e Balladino). Il meglio però si viene a creare quando gli Atlas Genius si ritrovano in solitudine, chitarra e voce, a parlare spontaneamente senza dover pensare alle parole che si pronunciano ma lasciandole uscire dalla bocca a loro piacimento. Allora si inizia a parlare di amore, di distanza, di inchiostro, di tempo e nulla sembra importare più dei ricordi e dei pensieri felici del passato per poter essere felici nel futuro. Il capolavoro del disco è certamente la conclusiva Levitate, la più intima e riservata canzone finora mai scritta dai fratelli. Per concludere un album forse meno fresco del precedente (stanca forse troppo il trittico Friends with Enemies - Where I Belong - Balladino) ma che comunque risulta assai piacevole e di buon livello, i testi migliorati e la maturazione del gruppo vanno certamente premiati. Si spera continuino questa loro evoluzione con un terzo album degno di nota.

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