Bradford Cox, con il senno di poi, può essere considerato come uno degli ultimi grandi interpreti della musica Pop stralunata del decennio appena trascorso, al pari di personalità in movimento perpetuo come Phil Elverum o Jamie Stewart. A differenza degli ultimi due, però, il titolare del marchio Deerhunter è considerabile il più terreno, il personaggio più umano. E dell'umanità ne rappresenta il lato più decadente, sensibile ed autoctono.

Scindere il percorso musicale di "Let The Blind Lead Those Who Can See But Cannot Feel" dal percorso interiore del Cox adolescente, e poi uomo, risulta praticamente impossibile, a cominciare dal connotato intimistico, da cameretta, di questo lavoro. Un sequencer digitale (Ableton Live), una chitarra, una batteria. Il primo lascito targato Atlas Sound non è altro che la sublimazione delle parti che hanno segnato prima e dopo il proprio percorso musicale: stratificazioni di matrice 4AD, dove i muri di suono chitarristici vengono soppiantati da lievi e sognanti droni o texture elettroniche che possono richiamare tanto gli Stereolab quanto il Sascha Rings di "Duplex" o ancor più sognante di "Walls". O più poeticamente pensare agli arabeschi corali e iper saturi dei girl group Spectoriani, riportati nell'era della massimalizzazione digitale. Canzoni sbilenche, sempre in punta di piedi, sonnolente e sedate. Introspezione senza alcuna soluzione lenitrice, semmai esorcizzante. E' in quel contesto che vanno considerati monumenti di escapismo, via Dream Pop, di "Bite Marks" o l'isolazionismo dronico della tilte track e di "A Ghost Story". Un fantasma, quello del giovane Cox, che torna ad essere padrone di ogni episodio qui presente.

Ciò che rende grande quest'opera è la capacità di raccontare, raccontandosi, su più livelli di lettura, una tipicità di incapsulazione letteraria propria delle migliori penne di musica pop(olare) del decennio scorso, senza voler andare a scomodare Kurt Cobain. Come quest'ultimo, però, anche in Atlas Sound i momenti migliori risultano essere quelli inequivocabilmente bagnati dal Pop e dai costrutti più "regolari", come la magnifica ballata "Ativan" o l'ottimo binomio d'apertura "Recent Bedroom"/"River Card". La risoluzione del dilemma esistenziale in quest'opera trova conforto nel dormiente finale, nella risoluzione catatonica di un'onironauta, destabilizzato dai propri mostri e, no, il sonno della ragione in questo caso assolutamente non conta.

Da qui in poi Deerhunter e Atlas Sound diverranno due facce della stessa medaglia, andando l'una a lambire l'altra, senza soluzione di continuità, affievolendo le costruzioni sgrammaticate in favore di una capacità costruttivo descrittiva sempre più nitida e prettamente canzonistica, in grado di parlare di sè, con ogni linguaggio disponibile - che sia Pop chitarristico o pianistico, da cameretta o post Gaze, destabilizzante o lenitore - senza escamotage metatestuali, parlando, anzi sussurrando, direttamente all'orecchio di chi ascolta.

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