Quando, qualche settimana fa, è stata diramata la notizia della morte del l'indimenticabile attore francese Jean Paul Belmondo ho pensato bene di rivedere due suoi noti film impegnati come "A bout de souffle" e "Pierrot le fou". Senza nulla togliere alle qualità del primo titolo giustamente ritenuto pietra miliare del cinema del Novecento, le mie preferenze vanno al secondo. I motivi potrebbero essere numerosi ma sostanzialmente in "Pierrot le fou" ritrovo al meglio quell'atmosfera anarchica e folle che si respirava sia in quegli anni intensi (1965 anno di realizzazione della pellicola), sia nel cinema tipico di Godard da "A bout de souffle" in poi.

La vicenda segue le peripezie di Ferdinand Griffon (indimenticabile Belmondo) che vive un'esistenza borghese dorata e noiosa, frutto di un lavoro affermato in veste di docente di lingua spagnola e collaboratore in campo televisivo . Una sera , stanco di banali conversazioni intrise di riferimenti a pubblicità di prodotti di largo consumo, ritrova casualmente una sua vecchia fiamma di nome Marianne (interpretata dall'affascinante Anna Karina) con cui aveva avuto una relazione cinque anni e mezzo prima. Si riaccende il desiderio e Ferdinand (continuamente chiamato Pierrot dalla ragazza ) decide di mollare tutto e fuggire con l'amata verso la Provenza.

La scelta è certo ispirata dal nobile intento di trovare uno stile di vita più equilibrato vicino alla natura, in linea con una certa visione filosofica alla Rousseau. Il problema è che i due finiscono con il condurre una vita sicuramente picaresca nei pressi della Costa Azzurra ma ricorrendo ad espedienti deliquenziali, un po' alla Bonnie and Clyde. E c'è anche il fatto che Marianne, oltre a finire con l'annoiarsi, è donna inquieta, dinamite allo stato puro con conoscenze poco raccomandabili nel mondo della malavita . È inevitabile che si allontanerà da Ferdinand per poi tornare e metterlo nei guai, fino ad un finale rocambolesco e veramente esplosivo.

Quello che ancora oggi rende avvincente "Pierrot le fou " non è solo costituito da certi elementi tipici dello stile di Godard. Non è quindi la dissoluzione della trama in una serie di gag, citazioni colte (qui soprattutto il rimando ad opere di Velasquez, Renoir, Picasso). Ne' certe situazioni da videoclip con personaggi estemporanei ed immagini slegate. E neanche la fulminante definizione del cinema fornita dal regista Samuel Fuller (presente in un cameo) che lo paragona ad "un campo di battaglia : amore, odio, azione, violenza morte. In una parola : emozione".

No, secondo me, in questo film solare tecnicamente dai colori molto saturi, il regista riesce a rappresentare il divario incolmabile fra due persone che, per quanto innamorate l'una dell'altra, non riescono ad essere in piena sintonia e sono condannate all'incomunicabilita'. Lo si vede bene quando, nel gioco dei sostantivi, mentre Ferdinand nomina concetti filosofici elevati, Marianne invece cita nomi legati alla natura. Come dire trovare un punto di incontro fra mondo intellettivo (logos) e ordine naturale, maschio e femmina . Due mondi distanti e Godard, autore solitamente molto razionale, qui fa emergere una vena romantica illustrando una vicenda di folle amore fra due persone che cercano di reinventarsi la vita .

Sicuramente il film rappresenta uno degli esempi più significativi del cinema innovatore di quel lontano periodo storico. Un'opera proprio innovativa e non me lo spiegherei altrimenti dal momento che in Italia la pellicola, editata con lo strambo titolo "Il bandito delle 11", durava 92 minuti, mentre l'edizione originale francese è di 110 minuti . I censori dell'epoca evidentemente ne avevano compreso il carattere sovversivo verso il buon ordine borghese costituito. Infatti vietarono il film ai minori di 18 anni con la motivazione "dell'anarchia intellettuale e morale del film nel suo insieme" . Era il 1965 e i venti di cambiamento spiravano impetuosi..

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