Alzi la mano chi si ricorda di Agnes, cantante che nel 2009 giunse sulle nostre frequenze radio con la piacevole “Release Me” per poi sparire dopo poco tempo dai radar di qualunque ascoltatore al di fuori del territorio svedese. Ecco, a momenti non me ne ricordavo nemmeno io, non fosse che il magico algoritmo di YouTube mi suggerisce, dopo l’ennesimo ascolto di Jessie Ware, proprio quella canzone e io, preso dalla nostalgia (e dall’assenza di qualcosa di costruttivo da fare), decido di scoprire che fine avesse fatto e mi imbatto quindi nel suo ultimo lavoro, il primo rilasciato con la sua etichetta indipendente. Ora, è pieno il mondo di cantanti pop che, dopo il loro periodo di massimo successo commerciale, decidono di lavorare da indipendenti per continuare a fare musica e spesso questa cosa coincide con produzioni finto-indie atte ad assecondare una scrittura poco brillante, ma sufficientemente arzigogolata per darsi un tono da artisti puri e incontaminati, quando la verità è che gli stessi valgono ben poco senza lo stuolo di autori e produttori che erano abituati ad avere dietro. Ora, sarà che gli svedesi in campo pop hanno una marcia in più, sarà che la maturità anagrafica ha portato la nostra a decisioni più ponderate in ambito artistico, ma sta di fatto che, contrariamente alle mie aspettative, “Magic Still Exists” è un disco molto centrato nelle sonorità, nei testi e nelle ambizioni, oltre che frutto di una visione forte e ben precisa: la produzione, a cura del marito, è perfetta e Agnes veste bene i panni della sacerdotessa Disco in salsa euro-pop, con una serie di pezzi dal ritmo trascinante che inneggiano alla libertà in tutte le sue forme.

Dopo una breve intro strumentale il cui titolo è una vera e propria dichiarazione d’intenti (“Spiritual Awakening”), si parte subito in quarta con i cori robotici di “XX”, il cui ritornello è manifesto dell’interno lavoro (“My brothers and my sisters, praise your existence, X-X-press yourself”), che prosegue agilmente con il delicato pulsare in 4/4 di “24 Hours” e, soprattutto, nell’esplosione di synth di “Here Comes the Night”, che è fondamentalmente la miglior canzone degli ABBA a non essere mai stata scritta dagli ABBA. Il che peraltro è applicabile a un po’ tutto il disco nel bene e nel male: il quartetto di Stoccolma è infatti omaggiato costantemente, senza essere però mai malamente saccheggiato, visto che gli arrangiamenti, al contempo vintage e freschi, uniti alla grinta e alla personalità della padrona di casa, che volteggia sulle tastiere con il suo scuro contralto, dotano il lavoro di un’identità ben definita e che non diventa mai stucchevole, ma in generale chi non ha mai tollerato i lustrini e le strobo di “Gimme Gimme Gimme” e “Super Trouper” difficilmente qui troverà pane per i propri denti. Va poi detto che la scorrevolezza del disco è in parte intaccata da una serie di interludi che hanno poco senso di esistere, in quanto nelle intenzioni vorrebbero trasmettere la sensazione di trovarsi in mezzo a una cerimonia religiosa officiata dalla Donna Summer di turno, ma all’atto pratico sono ripetitivi e ridondanti, visto che sono solo estensioni parlate di pezzi di altre canzoni e che dovrebbero aiutare a porre l’accento sui temi cardine dell’album, ma alla fine spezzano solo inutilmente la scaletta. Poco convincente anche la cacofonica “Selfmade”, che ammicca al voguing e parte discretamente, ma si perde a metà strada diventando inutilmente ripetitiva, ma sul finale l’album si riscatta con la piacevole “Fingers Crossed” e, soprattutto, con la title-track, una nostalgica litania cantata con convinzione su un’elegante base pianistica, che nella sua semplicità rappresenta la chiusura perfetta per rimettere i piedi per terra dopo la sbornia Disco delle canzoni precedenti.

Niente male, insomma, per una che era partita sfornando pezzi euro-pop senza pretese ai tempi dei suoi primi anni di carriera e che ora sembra avere trovato una sua ragione artistica d’essere, pur presentando qualche evidente margine di miglioramento. Resta da vedere, adesso, se Agnes sarà in grado di cogliere i frutti della sua rinascita musicale e sfornare l’album che è palesemente in grado di concepire, viste le buone premesse, o se ne cadrà vittima come altri nomi più altisonanti prima di lei. Magari partendo proprio dall’eliminazione dei pezzi più superflui della scaletta dei suoi futuri lavori, che già sarebbe un grosso passo in avanti.

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