Fango e insetti, alcool e sangue. Fumo, ruggine e Black Sabbath. E se Tom Waits si fosse messo a suonare stoner? E se dai bassifondi lerci e maleodoranti della città emergesse una creatura fatta di blues impazzito e deforme? E se invece si trattasse semplicemente di fottuto rock’n’roll? Sangue e m***a, insetti e fango, rabbia e disincanto, degrado ed ironia, fuzz fuzz e ancora fuzz: ce ne sono di motivi per entusiasmarsi innanzi al nuovo parto discografico del duo Succi/Dorella.
Ma non sarà questa la sede.
Beninteso: non è questa una stroncatura, sebbene possa sembrarlo. No, questa non è una stroncatura, perché fra l’altro il cd gira, e gira molto bene, da un bel po’ di giorni nel mio lettore: la mia è solo voglia di evitare quei toni altisonanti che non spiegano niente e che spesso si trovano in giro (vedi incipit della recensione). "Oddio che palle il Mementomori che ora si mette a recensire anche i Bachi da Pietra", diranno in molti; o suvvia, rispondo io, le cinque righe di elogi disconnessi (fumo e sangue, fango e insetti, fuzz fuzz e ancora fuzz) troveranno comunque spazio sulla rete. La mia, piuttosto, vuole essere una disamina un poco più attenta dell'ultimo lavoro di una realtà oramai affermata nel panorama alternativo verde-bianco-rosso, e non più il frutto di un'esperienza temporanea.
Sì, perché se i Bachi da Pietra fossero un progettino perditempo, o meglio ancora una banducola emergente alle prese con il loro esordio, saremmo di fronte al miracolo. Ma poiché così non è (“Quintale”, come suggerisce del resto il titolo, è il loro quinto album; dietro al mixer ci sta Giulio Ragno Favero, mica uno qualunque; e fuori La Tempesta, mica l'ultima delle etichette), è lecito assumere un atteggiamento leggermente più critico.
Dunque l’avventura dei Bachi da Pietra riparte dalle distorsioni di chitarra e dai fuochi di feedback: i suoni sono sporchi, volutamente lo-fi, ma non di certo trascurati (i Bachi, si sa, non sono certo degli sprovveduti al riguardo). “Haiti”, che non ha niente dell’esotico evocato dal titolo, è l'inizio perfetto, l'inizio con il botto, una badilata di melma dritto nei denti (neri): la raucedine di Succi si eleva minacciosa e corrosiva su un cumulo di riff impastati e possenti, Dorella fa il resto. “Brutti versi” è batteria battente, poi voce roca e batteria, poi altre scudisciate di chitarra, voce e batteria, vetriolo contro la prolificazione indiscriminata di opere insulse da parte di artististoidi che farebbero meglio a rinunciare alle loro ambizioni letterarie, perché i soldi vanno ma i versi restano: l'apice del rock proletario, sanguigno, irriverente dei Bachi. E poi è la volta di “Coleotteri” (ancora insetti!), inverosimile nella sua violenza: una mazzata che rasenta il thrash-metal (ascoltare per credere), dove Succi sfiora il growl e Dorella la doppia-cassa. I Bachi non erano mai stati così violenti.
Bruno Dorella è pietra: è il ritmo incessante che spezza il tempo e il fango; Giovanni Succi è ancora pietra, il fango che spezza Dorella: è la chitarra che sega le orecchie, il latrato che schiaffeggia l'intelletto. I Bachi sono pietra, alzano il tiro e ci piace riscoprirli così irruenti nella loro poetica sgraziata (non si era parlato di un Tom Waits che si è messo a suonare stoner?). Ma “Quintale”, nonostante la sua monocromia (suoni che si assestano fra il grigio e il marrone), è un album vario, che sa passare con disinvoltura dai versi hip-hop della gradevole “Fessura” (del tutto godibile, nonostante ci ricordi Neffa), ai languori pop di “Dio del suolo”, una ballata che finisce per somigliare inquietantemente al Lucianone nazionale (lo so, da premesse diverse e verso altri orizzonti, ma con risultati molto simili), cosa che io trovo francamente intollerabile. Logico che i Bachi son più belli quando tornano a pestare, come accade nella terremotante “Paolo il Tarlo” (decisamente la migliore del lotto) o “Sangue”, che alterna sguazzanti momenti doom/noise e ripartenze killer. Oppure quando graffiano la pelle e l'anima con il passo marziale, con la poetica visionaria e i cori desolanti di “Mari Lontani”. Da segnalare inoltre le folli incursioni del sassofono di Arrington De Dionyso in ben tre pezzi, mentre il buon Favero (che partecipa attivamente prestando la sua chitarra in un brano e la sua voce in diversi altri) ci mette qua e là un pizzico di Teatro degli Orrori, ma senza snaturare il sound del duo, che inietta il suo blues deviato di Black Sabbath, ruggine e tante altre cose (pesanti).
Un lavoro discontinuo, quindi, ma con dei picchi notevoli. Meritevole senz'altro sul piano musicale, forse un po’ di meno dal punto di vista delle liriche: i Bachi sono incazzati, e questo è chiaro, però si ha l’impressione che sbraitino un po’ a vuoto. Non ci si aspetta certo chissà quali finezze dal Succi, ma non siamo più nemmeno negli anni novanta, in cui si poteva essere incazzati ma anche un po' gigioni: nel 2013 la faccenda è diversa, il nostro mondo è sensibilmente peggiorato, e se si è in disaccordo e si vuole anche fare un po' i cantautori, se non i predicatori, sta male giocare. Non basta più scatarrare in faccia al sistema il proprio dissenso, bisognerebbe fare di più, sforzarsi di più, andare oltre l’ovvia e sacrosanta invettiva. Invettiva che suona ancora più banale e finisce per puzzare di qualunquismo nel momento in cui la band rifugge da ogni approfondimento o schieramento ideologico (non che uno debba per forza schierarsi, beninteso, ma almeno spiegati, dai sostanza alla tua posizione, o perlomeno scagliami addosso slogan ed infiammami con la tua sfibrata interiorità!).
E forse sta qui il nodo della questione: sono proprio i testi di Succi a non convincere appieno, sospesi e svalvolanti fra voluta rozzeria e maldestra auto-analisi, indugiando a tratti in qualche pretenziosità di troppo. Laddove – in generale – le qualità di paroliere non sono eccelse, e basta tirare fuori l’esempio di “Enigma”, una carrellata di nomi più o meno noti che sostanzialmente finisce per non dire nulla di rilevante. E se mi permetto di fare questo appunto (pur sapendo che il rock, per sua essenza, è anche e soprattutto immediatezza, e che non bisogna essere certo dei poeti per fare del buon rock), è perché proprio “Brutti versi” è applicabile a molte cose cantate in questo album. Troppo facile alla fine, con la conclusiva “Ma anche no”, svuotare di senso la parola, nascondersi dietro ad una confessata incapacità comunicativa.
Meno male che i Bachi non ci salutano con la doppietta scialba delle due ballate conclusive: c'è ancora spazio per una ghost-song, non così fantasma a dire il vero, visto che il suo titolo campeggia nella track-list. Si chiama "baratto@bachi di pietra.com" e si discosta decisamente dal resto dell'album, per la sua veste interamente acustica, per la voce incredibilmente pulita, per l'approccio hip-hopparo (questa volta) senza se e senza ma, e per il testo scherzoso (ma mica tanto): più che un testo, un "cordiale vaffanculo" rivolto agli appassionati del download selvaggio, croce e nemesi per ogni musicista che desideri sopravvivere con il proprio lavoro.
Fiuuu, vaffanculo schivato (almeno per una volta....)
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