I Bad Company, che storicamente avrebbero forse meritato maggiore considerazione, chiusero moralmente la loro carriera con questo "Rough Diamonds" uscito nel 1982. Oltre ad essere l'ultimo album in studio con la line-up originale, esso rappresenta il disperato tentativo di recuperare una certa credibilità nell'ambito del revival blues britannico ed in quello dell'hard-rock.

Il risultato complessivo è un deprimente necrologio che sancisce la dipartita di un gruppo che aveva avuto nelle sue radici (pensiamo allo stupendo album d'esordio) la grezza drammaticità dei Free oltre che l'apporto lodevole di un ex King Crimson come Boz Burrell ed il contributo alla chitarra di Mick Ralphs (Ex Mott The Hoople). "Rough Diamonds" è un album tremendamente banale, stereotipato e privo di qualsiasi idea convincente: facilmente descrivibile come un'accozzaglia semplicistica di richiami al passato, molto pop-blues e davvero poco Hard-Rock. Molta enfasi è data alle tastiere, mentre le chitarre sembrano un prontuario di licks già pronti per novelli del blues. La voce di Paul Rodgers, da sempre l'elemento più rispettabile del gruppo, sembra scomparire con disperata rassegnazione nella nebbiosa mancanza di originalità.

L'opener del side one, "Electric Land", è l'unico vero successo del disco, oltre ad essere la sola traccia a spiccare con decisione sul livello trascurabile e stancante delle rimanenti canzoni. "Untie The Knot" è un compitino senza lode di pop da classifica che ricorda, in maniera bizzarra, i Toto. Nel calderone del revival blues finiscono senza troppe pretese "Nuthin' On The TV", il rock and roll pacchiano e sempliciotto di "Ballad Of The Band" e la folkeggiante "Cross Country Boy". "Painted Face" sembra aprirsi con una struttura melodica gradevole ma finisce nel patetico con un uso delle tastiere da sigla dei cartoni animati anni '80. "Kickdown", messa a chiusura del side one, è un pezzo discreto, facilmente dimenticabile, dove però Paul Rodgers mette in bella mostra le sue innegabili doti. Trascurabili le rimanenti "Old Mexico", "Racetrack" e l'imbarazzante pagliacciata funky di "Downhill Ryder".

Il disco, copertina sagomata, interno con foto da saloon in salsa anni '70, tra cappelli texani, prostitute e casinò, sta nella seconda fila della mia discografia, quella che uso per dare spazio ai dischi che meritano il facile accesso.

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