Lamentarsene sarebbe un delitto, ma noi si è stronzi.

Per molti definitiva consacrazione dopo il ritorno a casa, “The Empire Strikes First”, ottimamente registrato – nulla a che vedere con le chitarrine indolori di “The Process of Belief” - è in realtà un disco brutto.

Oddio, brutto brutto no. Non è una ciofeca, ecco, ma nemmeno un buon disco. Bellino? Sì, può darsi.

Direi che ‘bellino’ rende da dio. Sprigiona quella sensazione di mestizia che suscitano supercazzole come “carbonara con il seitan” o “Negramaro headliner”.

Nel 2004, in effetti, c’era un coro di ovazioni. Non un capolavoro, ma, insomma, ottima roba. Perché tanta acredine da parte mia? Principalmente, perché dai Bad Religion mi aspetto sempre il massimo e un lavoro buono potrebbe oggettivamente non esserlo così tanto, una volta rapportato alla caratura degli autori. Pareggiare col Rayo Vallecano può essere cosa ganza, ma non se sei il Real Madrid. Ci dev’essere dell’altro, però, perché io ho amato tutti le loro fatiche. Questa, invece, no.

Il motivo è semplice: è un disco banale e ipocrita. E, se osservate bene, di indizi ce ne sono a josa.

Basti il titolo. Parliamo di un album sulla Seconda Guerra del Golfo, notare bene. E che fa il Greg? Mi ricicla Guerre Stellari. Il che non è necessariamente un male, anzi, ma il parallelismo USA/Lato Oscuro è nato vecchio. Oltretutto, “The Empire Strikes First” è uno slogan più che abusato in documentari contro l’imperialismo statunitense. Insomma, da uno che cita James Hutton mi sarei aspettato un po’ più di inventiva.

Altra nota dolente: artwork. Stilisticamente è ineccepibile, verissimo. Il problema è il soggetto della copertina, grondante originalità pari al “Gioco del topo” di UnoMattina: è chiaramente rappresentato O’ Brien, torvo antagonista del capolavoro orwelliano, nella stanza 101.

Io dico: anche un cranio a infima densità neuronale riesce ad associare “Stato brutto cattivo imperialista” a “Orwell Oceania Dueminutiodio”. “1984” è un testo fondamentale che tutti dovrebbero leggere, ma il collegamento Bush figlio/Grande Fratello non è un tantinello prevedibile? Giusto un filo, eh. La mente corre all’originale, struggente lirismo di “Fertile Crescent”, la Culla dell’umanità che inscena la sua morte: la Prima Guerra del Golfo. Era il 1992. Sono passati proprio tanti anni.

La banalità di “The Empire Strikes First”, va detto, è anche determinata dalla novità che esso rappresenta a livello di scrittura: è il primo album dei nostri su un argomento di pregnante attualità, quindi con limiti (geografici e temporali) ben definiti.

I Bad Religion sono sempre stati bravi a giocare sulla speculazione filosofica, sull’introspezione personale e sulle domande ultime. Le incursioni nella politica, inoltre, erano sempre state incidentali, meri pretesti per accendere la mente sulle aberrazioni parossistiche dell’età contemporanea.

Il disagio è palese nei testi: c’è la solita compiaciuta ricercatezza stilistica, ma abbonda una retorica fiacca e poco incisiva: “God’s Love” e “Atheist Peace” indugiano stanche su argomenti meglio approfonditi in passato (siamo distanti eoni dalla laica disillusione di “The Answer”); “Let Them Eat War” – inciampando in zarrissime suggestioni hip hop – scimmiotta il trito slogan di Maria Antonietta; la titletrack, poi, è un bignamino di politica da bar con tormentoni orwelliani (“We stumbled once in ‘nam … Yeah, you deserve 2 Minutes Hate”).

Anche l’arrangiamento, a sua volta, appare spesso poco ispirato: lo spelling marziale di “The Empire Strikes First” suona più Rammstein che Bad Religion, il bell’affresco orwelliano di “Boot Stamping on a Human Face Forever” viene mortificato da velleità radiofoniche (basti l’incolore ritornello) francamente inspiegabili; “The Quickening”, semplicemente, è una canzone che non esplode mai, allungando il brodo.

Perché è proprio questo il problema più grave: l’imbarazzante numero di riempitivi. I carichi da undici ci sono, ovviamente. Non riconoscere la classe arrembante di “Sinister Rouge” o il fascino melodico di “Social Suicide” sarebbe miope. “All there Is”, musicalmente apprezzabilissima, è forse il manifesto del lirismo ateo di Gurewitz, per non parlare di quella splendida suite che è “To Another Abyss”. Eccellente mestiere, nulla da dire. Ma tutto finisce qui, mortificato da esericizi rock dall’anonimato imbarazzante.

Le censure non sono finite. Spiace, ma un album (specie se si annuncia panc) dev’essere essenzialmente il veicolo di un messaggio. Un messaggio di rottura e contestazione, pronto a mettere alla berlina costumi imperanti e autorità costituite. Non importa che sia al cento per cento sincero, sarebbe utopico. Vent’anni si hanno una volta e basta, nella vita. E’ sufficiente che sia credibile, pungolando la coscienza della gioventù fruitrice.

Ecco, Bad Religion, allora non mi potete incidere un album con un nome così ribbelle e kattivo per poi dire a RockSound, nell’intervista dedicata, che “auspicate una vittoria di Kerry per la Casa Bianca."

Cazzo, mi fate un album contro le politiche imperialiste statunitensi e mi dite di votare per uno che, fiore all’occhiello del cerchiobottismo, ha appoggiato l’intervento in Iraq? Ma dovevate urlarmi di barrare Nader, incidermi una “Holiday in Fallujah” e dirmi che Kerry era il redivivo Jerry Brown, altro che “auspichiamo”! Il cazzo auspicate.

Spiace, ma con “The Empire” vi siete mostrati per quello che siete: dei ricchi quarantenni arrivati, che pensano all’orticello, a mettersi indietro per non essere inculati da Possanzini in contropiede. Certo, questo è spesso inevitabile: ma il palco esige un po’ di gioventù posticcia, specie da chi, nel 1982, urlava “Voice of God Is Government”.

Ma la ciliegina sulla torta è questa, il capolavoro che suggella l’ipocrisia badreligioniana del 2004. Riverberandosi, ҫa va sans dire, su “The Empire Strikes First”.

Il Rock Against Bush.

Cioè la lodevole (furba?) iniziativa di Fat Mike: reclutare un tot di sedicenti artisti impegnati per dire a Bush jr che è un figlio di troia. Verso la corresponsione di tanti bei dollaroni. Fin qui tutto ok. Lo impone il gioco delle parti.

Escono due dischi, vol. I e II, pregni di nomi illustri (i Bad Religion contribuiscono con "Let Them Eat War"). Ma ci sono dei grandi assenti.

Esatto: loro, i Propagandhi.

Stranissimo: Chris Hannah che non molla fendenti alla più grassa e facile pignatta repubblicana? Come mai? Che abbia declinato l’invito?

Quando mai: Fatty ingaggia, loro propongono una “Bullshit Politicians” rivisitata per l’occasione. Abbondano feroci invettive al duopolio lobbistico del Congresso: democratici e repubblicani sono sputtanati fino alle mutande. Lo è anche il tycoon d’assalto George Soros, pioniere dei fondi d’investimento offshore, burattinaio del mercato delle armi e dei gruppi di pressione, nonché corposo finanziatore del Rock Against Bush.

Il Fatty nazionale chiede, infatti, una rettifica: viailnomediSorosteprego. I Propagandhi, giustamente, lo mandano a fare in culo, eclissandosi.

Ecco, questa è l’ennesima conferma della caratura morale e politica del proprietario della Fat Wreck: “anyone but Bush”, purché se magni tanto (lollosissime, tra l’altro, le motivazioni che hanno portato all’autoesclusione della band canadese: oltre alle invettive a Soros, insospettabile filantropo, il fatto che “Bullshit Politicians” fosse una canzone già pubblicata. Già, perché “Baghdad” degli Offspring e “That’s Progress” di Biafra erano nuovissime, sissì!).

I Bad Religion non sono certo i diretti responsabili di questa porcheria: sicuramente, però, hanno dato pieno sostegno, consapevoli del loro autorevole ruolo di capiscuola, a un progetto antitetico rispetto ai valori promossi in carriera. E questa è un’aggravante pesantissima.

Per questi motivi non mi piace “The Empire Strikes First”, opera moscetta e iperprodotta, lincenziata da radical chic annoiati, ormai ritiratisi in collina. Ennesima effigie dell’inzaccherato compromesso, della retorica piegata al facile guadagno (quanti album del genere ci siamo sorbiti nel 2004?). Un disco bellino che puzza. Un disco democristiano. Un disco, orrore!, MODERATO.

Non è la resa incondizionata, ma il pareggiare bene che uccide le coscienze, cari Bad. Com’è che fa quella vostra canzone? Bring the dissident from slumber…

Fortunatamente il 2007, con la vostra redenzione, arriverà presto.

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