Banco Del Mutuo Soccorso - Io Sono Nato Libero (1973)


La grandezza dei complessi che hanno segnato la storia della musica, risiede in buona parte, nella sconfinata capacità di sorprendere e incantare, proprio quando si ritiene che il picco di magnificenza musicale sia già stato raggiunto. Nel 1973, il Banco Del Mutuo Soccorso non solo riesce ad eguagliare l'inaudita efficacia strumentale dell'evoluzione nel concept Darwin!, ma arriva a toccare vette d'ispirazione, che sì, segneranno un punto di non ritorno per tutto il panorama progressive italiano e non solo. Ispirazione nei testi, nel cantato di Francesco Di Giacomo, nel lavoro certosino sugli arrangiamenti, mai così curati e ricchi. (da segnalare che questo sarà l'ultimo lavoro di Marcello Todaro alla chitarra, coaudiuvato anche dall'entrante Rodolfo Maltese, anche se non segnalato nei crediti, il quale diverrà membro fondamentale a tutti gli effetti).

Se nel precedente lavoro, i fratelli Nocenzi & co., rivisitavano sapientemente con una manciata di brani, i primi passi della vita, fino alle complesse comunità stanziali, ora sono la denuncia politica, i manifesti contro la guerra e l'alienazione umana, a farla da padrone. Il titolo dell'album è esplicativo del messaggio più sostanzioso in tal senso, quello che certamente seppe scuotere maggiormente le corde, riprendendo le parole che Di Giacomo, in un amplesso strumentale, grida disarmato, nella mini-suite che consegna ai posteri, il terzo lavoro del Banco.

Si aprono le danze, è "Canto Nomade Per Un Prigioniero Politico". I primi due minuti, per chi vi scrive, profumano di Banco come pochi altri stralci delle composizioni di questo favoloso gruppo romano. Vittorio Nocenzi batte la via, con un lamento alle tastiere, il segnale per la voce di Di Giacomo, che in tono mesto, racconta gli ultimi ricordi di quel prigioniero politico, rinchiuso senz'aria, senza luce, ma non senz'anima. Di lì, è un minuto di pianoforte, un tappeto di note, che trasporta via i pensieri ed i sogni del recluso e dell'ascoltatore, in un ultimo pianto, lontano da quel buco maleodorante. E' questo il momento nel quale la musica dell'album si lega all'ascoltatore, per non lasciarlo più, per i successivi quaranta minuti. Ascoltatore che, quasi annichilito, vorrebbe sentire suonate all'infinito quelle stesse note.

E' un continuo rimbalzare da Gianni a Vittorio, da Vittorio a Gianni, di sferzate, richiami, martellate, prima dolci, poi rocciose, mentre svetta un cantato sfuggente. Gli intermezzi strumentali di chitarra classica, che intervengono spesso, ricamano uno dei momenti più struggenti della composizione: sentirete allora le corde pizzicate, accompagnarvi verso il patibolo, proprio insieme al condannato, tanto saranno disegnate queste note e tanto sarà ormai consegnata e dismessa la voce che declamerà in ultimo, "...lamenti di chitarre, sospettate a torto, sospirate piano...". Come rendere indimenticabile l'ascolto di quindici minuti di musica di denuncia e racchiudere in un'essenza prima dolcissima e poi nevrotica, l'opera e il messaggio del Banco. Tutto questo è la prima traccia.

Per quanto il resto dell'album potrebbe esser composto da meri riempitivi, data l'oggettiva meraviglia della mini-suite, la successiva fiabesca ballata della buonanotte, dal retrogusto amaro, ci regala forse il brano più conosciuto del Banco: "Non Mi Rompete". L'effetto è dirompente. E non è un termine improprio per una canzone che fa dell'arpeggio di chitarra continuo e di un cantato soffice, il suo punto di forza. Dirompente, perchè si canta con forza il desiderio, ardente, di continuare a sognare, nonostante il sogno sia finito, forse per sempre. "...perchè volete disturbarmi, se io forse sto sognando un viaggio alato...". E' un testo epitaffio che ritengo, tutti i sognatori di questa vita, vorrebbero veder inciso sulla lapide. Si parlava poco sopra, non a torto, d'alienazione umana.

Ed ecco intervenire, a tal proposito, una composizione partorita interamente da Gianni Nocenzi, "La Città Sottile", che "semplicemente", anticipa di quasi quarant'anni, tutti i problemi che silenziosamente o meno, vivono gli animi delle genti intrappolate in anguste torri d'avorio delle grandi città. Il brano si dipana sul solito, ma mai banale o noioso, srotolarsi di fiumi di note al piano, con diversi accenni psichedelici e una parte dialogata e recitata magistralmente da Francesco Di Giacomo. E' una traccia fortemente allucinata, cadenzata, per certi tratti sfumata, realmente opprimente e il dialogo con la chitarra, in un certo frangente, amplifica tutto ciò. Da segnalare nuovamente, oltre alla purezza e ricercatezza degli arrangiamenti, un grande lavoro sui testi. "...luci opache le tue rare stelle, il tuo Sole è spirato...".

Il manifesto al pacifismo e contro la guerra, è rappresentato da "Dopo...Niente E' Più Lo Stesso", altro brano piuttosto lungo e corposo. La ricetta pare essere la stessa; continui, rissosi duetti prima di fioretto, poi coi cannoni a sparare fiori, tra i fratelli Nocenzi, a sostenere Di Giacomo che canta del ritorno in patria di un soldato, il quale scoprirà come la guerra è forse finita, ma appunto dopo, niente è più lo stesso. Il baccanale strumentale della traccia, consente di esprimersi ai massimi livelli ad ognuno dei componenti del gruppo. Tutti sugli scudi; i fratelli chiudono un cerchio infinito con piano e tastiere, batteria di Calderoni all'arrembaggio (come in gran parte dell'album, del resto), mentre le chitarre di Maltese e Todaro sferzano e tagliano con delicatezza, e Francesco urla la sua rabbia al mondo in macerie, "...cosa ho vinto? Dov'è che ho vinto? Quando io so, ora so, che sono morto dentro, tra le mie rovine...".

La conclusione dell'album, è affidata ad un tenero strumentale, "Traccia II" (dopo "Traccia" del debutto), che sembra voler tamponare i padiglioni violentati da tanta bellezza e orgia musicale. Addolcire e cullare, tra i virtuosismi dei fratelli del destino, Gianni e Vittorio, che letteralmente costruiscono un pezzo coi fiocchi, 2:39 che si vorrebbe non finissero mai, persi a rincorrere quelle note che arrivano chissà dove, forse a far visita alle menti di chi, ancora oggi, vive col cuore in catene. E' forse il punto più alto mai toccato dal prog-rock italiano e certamente la consacrazione definitiva e totale del Banco, che di lì a poco, farà talmente tanto scalpore, da arrivare alle orecchie di un certo Greg Lake...

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