In principio furono i Neurosis. Poi vennero gli Isis, successivamente i Mastodon. Infine giunsero i Baroness, i già ex enfant prodige della nuova era del metallo, a portare avanti il testimone di quello che nel corso degli ultimi vent'anni circa (“Enemy of the Sun”, un disco a caso, era pur sempre del '93) è stato il percorso più innovativo e dirompente sviluppatosi in seno al metal, anche se all'inizio si chiamava post-hardcore, ed adesso lo si chiama post-metal, con tutte le variazioni sul tema che si possono incontrare.

Una spinta che però pare aver perso oggi il vigore originario. Già con gli stessi Mastodon il discorso si può considerare esaurito probabilmente nell'arco di un paio di album (“Remission” ed ovviamente “Leviathan”) e mezzo, visto che con “Blood Mountain” qualche crepa iniziava ad evidenziarsi. E non ci stupiamo se costoro, passando per l'ancora accettabile “Crack the Skye”, siano giunti con il fiato corto allo scialbo “The Hunter” del 2011, ad oggi loro ultimo parto discografico.

Dell'anno successivo, ossia del 2012, è questo “Yellow & Green”, che a parere di molti è l'album che avrebbero dovuto pubblicare i Mastodon stessi. I figli, quindi, superano i padri? Evidentemente sì: giunti, senza incantare, al traguardo del terzo album, questi ragazzi originari della Virginia confezionano quello che potrebbe essere definito il loro piccolo capolavoro, anche se i problemi fondamentalmente rimangono due: 1) I Baroness non hanno mai convinto fino in fondo, sebbene qualcuno volesse innalzarli allo status di nuovi paladini del post-post-hardcore. La mia opinione è che se non avessero avuto le copertine così belle, in molti meno se li sarebbero filati. E il fatto che non sia presente sul data-baser la recensione di questo album non fa che avvalorare la mia tesi. 2) I Baroness, in quanto figli legittimi dei Mastodon dovrebbero, almeno a parole, rappresentare l'ultimo anello della catena evolutiva del genere; e cosa ci propinano costoro nell'anno domini 2012? Non altro che grunge.

Scherzi a parte, il sound degli ultimi Baroness è ovviamente più composito: la violenza, la furia punk, lo sludge degli esordi, quelli sì, sono oramai un ricordo. Ma nel caleidoscopio di suoni ed immagini che intende proiettare la loro musica, i tre riescono a far convivere tante cose e delle più disparate: stoner, progressive, folk, psichedelia, amore per gli anni settanta, alternative rock a stelle e strisce, un qualcosa che alla fine della fiera rischia di assomigliare un po' troppo ad uno strano ibrido fra Alice in Chains e Nickelback.

Detto così, lo ammetto, la cosa suona scoraggiante (soprattutto per il paragone con i canadesi). “Yellow & Green” in realtà non è affatto un brutto album, anzi: 1) Pur rimanendo degli autori limitati e derivativi, e dei musicisti tutt'altro che sensazionali, i Baroness appaiono vispi, pieni di energie, probabilmente al top della forma, e la loro musica sprizza vitalità da tutti i pori, cosa che permette loro di porre in fila quasi ottanta minuti di musica senza particolari cedimenti, sebbene le sbavature siano tante, i passaggi a vuoto pure, e grandi vette non vengano quasi mai toccate (forse una, in un contesto di carinerie assortite che certo compongono un quadro positivo). 2) Pur rimanendo degli autori limitati e derivativi, e dei musicisti tutt'altro che sensazionali, i tre dimostrano di aver ingerito e ben metabolizzato il calderone di influenze a cui attingono a piene mani, riuscendo a confezionare un amalgama coerente, dotato di senso e che è in grado di intrattenere e mai annoiare nonostante la sua considerevole lunghezza.

“Yellow & Green” è così un doppio-album, scelta che non pare dettata da particolari esigenze artistiche né liriche: i due tomi (entrambi composti da nove brani ciascuno, ed entrambi introdotti da una traccia strumentale, rispettivamente “Yellow Theme” e “Green Theme”) non rappresentano visioni artistiche differenti, né paiono distanziarsi stilisticamente (forse il disco Verde è più melodico? Non ci giurerei...). A dirla tutta, considerato che il Giallo non arriva ai quaranta minuti e il suo compare supera di poco i trentacinque, il tutto poteva essere condensato tranquillamente in un unico supporto. Ma forse a John Baizley (leader della band nonché l'autore delle belle copertine) importava di più salvaguardare il concept cromatico della saga, e così, forse indeciso fra il giallo e il verde, ha deciso di tirare fuori dal cilindro un album bi-colore: ecco quindi, dopo l'album rosso e l'album blu, quello giallo e verde, colori che vanno sicuramente a rappresentare l'ammorbidimento dei suoni da un lato, una maggiore ricchezza e varietà di soluzioni ed umori dall'altro.

In “Yellow & Green” ci sono quindi rabbia e malinconia, ma anche distensione e relax, e quella spensieratezza e quella voglia di ribellione giovanile di cui qualche volta si ha francamente bisogno. A tratti pare di tornare a subodorare quell'aria frizzantina che si respirava all'inizio degli anni novanta durante l'esplosione del fenomeno grunge; peccato che oggi, purtroppo, viviamo brutti giorni. Questa l'impressione d'insieme, per quanto riguarda i singoli pezzi, devo dire la verità: le prime due canzoni effettive di “Yellow” (la seconda traccia “Take my Bones Away” e la successiva “March to the Sea”) non mi hanno pienamente soddisfatto. I nostri si muovono in un contesto melodico con passo elefantesco, apparendo goffi nei movimenti, e in questo non aiuta di sicuro un Baizley dietro al microfono tutt'altro che impeccabile, visto che per tutta il corso dell'opera dispenserà stecche a tutto spiano, soprattutto quando farà la voce grossa (ma sempre meglio della prova indecorosa a cui i Mastodon ci hanno oramai da anni abituati).

Ma dalla quarta traccia in poi, devo dire, i nostri di ripigliano in qualche modo. In “Little Things”, infatti, è la base ritmica a fare la differenza: a primeggiare è Allen Blickle, perfetto dietro alle pelli, spesso alle prese con cassa e charleston (cosa non scontata da queste parti) a dettare un andamento incalzante, oserei dire quasi meccanico, spietatamente wave. Da qui in poi il disco prende una bella piega, fra ballate degne dei migliori Opeth (sarà perché il canto di Baizley, che da pulito pare muoversi con maggiore disinvoltura, somiglia molto a quello di Akerfeldt – ascoltare “Cocainium” e “Back Where I Belong” per credere) e progressioni elettriche che sanno miscelare assalti stoner e tagliente riffing di matrice hard/rock (“Sea Lungs”). In questi ultimi frangenti la compresenza delle due chitarre (quelle dello stesso Baizley e di Peter Adams) è il vero valore aggiunto, in quanto il loro impiego non serve solo ad ispessire il sound, ma anche a tessere intrecci melodici il più delle volte riusciti. Insomma, tutto procede bene, si diceva, fino all'apice assoluto dell'opera, la lunga (in verità, non più lunga di sette minuti) ed evocativa “Eula”, sorta di ballata visionaria che risulta il perfetto connubio fra melodia e potenza che la Baronessa intende mettere in campo.

Lungo i medesimi solchi prosegue “Green”, leggermente più breve, e forse un pelino meno coinvolgente (sarà la mancanza dell'effetto sorpresa). Non resta, a tal riguardo, che segnalare l'iniziale “Board Up the House” (sorta di Pearl Jam rinforzati a suon di chitarroni distorti), le belle “Foolsong” e “Collapse” (che richiamano ancore le atmosfere tanto care agli Opeth di “Damnation” quanto agli Alice in Chains di “Jar of Flies”, protagonisti indiscussi fra gli artisti qui tributati) e la rocciosa “The Line Between”, il cui incipit virulento a base di pull muting e ritmiche serrate ci risveglia per un attimo dal torpore imperante, ricordandoci che pur sempre un album metal è quello che stiamo ascoltando.

Hai voglia a dire che questi non inventano niente: il tutto scorre meravigliosamente, con quelle sbavature che, lungi dall'infastidire, conferiscono autenticità ulteriore al prodotto: un prodotto che, se avvicinato con il giusto approccio (senza quindi grandi pretese), può risultare un bell'ascolto, vario e gradevole, ideale colonna sonora per le giornate libere da impegni o per un viaggio in auto, rigorosamente in solitaria.

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