Li avevo messi da parte, i Baustelle. Un po’ perché I mistici dell’Occidente dopo un po’ aveva mostrato la corda, un po’ perché il singolo La morte (non esiste più) mi suonava stanco, un po’ perché li collegavo automaticamente a ricordi che volevo rimuovere. Insomma, Fantasma non l’ho ascoltato proprio e anche gli altri pezzi non li rispolveravo da diverso tempo.

Ma con L’amore e la violenza mi hanno fregato. Sarà che ultimamente ascolto meno metal e mi sto invece avvicinando sempre più al synth pop e al rock anni ottanta. In realtà il colpevole principale è il singolo: Amanda Lear mi ha preso alla sprovvista e ora non posso proprio farne a meno. Va detto, è d’una furbizia straordinaria, ma evidenzia anche una gran capacità di reinventarsi: la strofa sembra eccessivamente una cantilena tipicamente bianconiana, ma poi parte un bel bridge arioso e fresco e quel ritornello in falsetto della Bastreghi che sa di tormentone assicurato. In realtà il brano è furbo in modo molto più sottile: l’uso del turpiloquio nei momenti decisivi, per rintuzzare l’eccessiva melodiosità e pungere l’ascoltatore; la costruzione del testo, d’un pessimismo molto diverso rispetto a quello del passato, più freddo, quasi pacificato, ormai arreso alle infelici evidenze della vita. Ma sorridente, volutamente scorbutico, senza paura di essere stronzo; «Sono diventato un mostro». Poi tutti gli incastri e la confezione al synth funzionano benone, certamente debitori di qualcuno, ma ben articolati e ricamati con archi e altri dettagli chic.

Tutto il disco si rifà grosso modo a questi elementi: freschezza synth pop, arrangiamenti curati ma mai pomposi o magniloquenti, capaci di una piacevolezza asciutta che sembrava davvero non preventivabile, vista la china presa dalla band. E invece uno dei pregi maggiori sta nel sapersi limitare, nel non sbracare mai con l’ambizione, con la pretenziosità. Ci si accontenta, ed è un bell’accontentarsi, di riuscire a fare una decina di pezzi con ritornelli memorabili, musiche ben variegate ed efficaci. Un disco da ascoltare con leggerezza, ma gustandone appieno la cura nella selezione dei suoni e dei timbri, nonché apprezzando qua e là qualche frase di valore.

La costruzione dei testi è decente, per quanto inciampi qua e là in passaggi di difficile interpretazione: non si capisce se siano banalità dure e pure oppure esempi di mimesi del reale inseriti da Bianconi per prendere un po’ tutti in giro. Anche gli elenchi non mancano, liste della spesa un po’ moraleggianti e facilone: «Profughi siriani, costretti a vomitare. Colpi di fucile, sudore di cantiere», «Orde di stranieri, dentro le fontane. Guanti di bambini, code all'altalene» (Il vangelo di Giovanni). Questi elenchi dopo un po’ stufano, meglio allora certe immagini sfumate, delicate, come nello stesso brano: «C'è qualcosa nella fine dell'estate non so bene che cos'è. E non riesco a respirare». Anche Betty presenta un po’ sempre le solite questioni, di vita mala, di degrado eccetera: una strofa ingolfata nei timbri di Bianconi e in immagini consunte sfocia in uno dei ritornelli più slanciati ed efficaci della loro intera discografia, ed anche più gradevole nelle parole. Le parole di Eurofestival sono tra le meno convincenti, scandendo nell’ennesima lista: «Interventisti, jihadisti e scambisti in lontananza. Nazi e giudei, demoni e dei». Ma Bianconi sa regalare anche bei momenti, all’insegna della maturità, del superamento del punto di vista degli altri dischi. In questo senso La vita è un dei momenti migliori: «Lo so, la vita è tragica, la vita è stupida, però è bellissima, essendo inutile. Pensa a un'immagine, a un soprammobile: pensare che la vita è una sciocchezza aiuta a vivere». Sono parole sensate e cantate con una cadenza pesante e un timbro agrodolce, adatti all’argomento. Ma anche Lepidoptera è notevole e intima: «Io non voglio farti più del male. Io non sono stato mai così tanto schiavo del mondo e attaccato alla vita. Una falena di luce drogata. Io ti giuro che saprò cambiare. Io non ho provato mai così tanta voglia di vivere e fame e sete. Una falena le notti d'estate». Bella. Meno fresche le parole di Musica sinfonica («Vivere è rimanere giovani», «Essere felici non è facile»), ma spalmate su un ritornello irresistibile. Come irresistibile e «oscenamente pop» è il ritornello di L’era dell’acquario.

A livello musicale, dicevo, il disco è particolarmente fresco; diversa la valutazione sui timbri vocali e le melodie. L’alternanza tra un Bianconi sempre più affettato e una Bastreghi sempre più eterea è calibrato in modo davvero certosino: la voce maschile non arriva mai a dare fastidio perché sempre puntualmente alternata a quella femminile. Anzi, se vogliamo in questi continui avvicendamenti è contenuta un po’ tutta l’essenza del disco: la fusione tra il pop meraviglioso de La voce del padrone e certi momenti di Fabrizio De Andrè, in termini vocali e di lentezza liquorosa del cantato. Ecco, una criticità è data dal fatto che in alcuni passaggi la somiglianza alle due fonti di ispirazione è eccessiva, sembra un’imitazione: si veda il ritornello di Eurofestival (Battiato) o la strofa di Ragazzina (De Andrè).

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