Due note introduttive:
1) Torno su questo sito dopo tanto tempo. Vorrei ringraziare gli amici che mi hanno ricordato di questo sito.

2) Questa recensione l'ho scritta io per un altro sito (non so se posso linkarlo). Non so se posso pubblicarlo: in ogni caso quanto scritto è tutto mio, e se lo trovate altrove su internet sarà comunque firmato con il mio nome e il mio cognome.

Dopo sei dischi che hanno inevitabilmente consacrato i Beach House come uno dei gruppi più chiacchierati del decennio – che si tratti di “Devotion” o “Teen Dream”, accolti benevolmente dalla critica tradizionale, oppure di “Bloom” e “Depression Cherry”, che invece hanno riscosso grande fortuna nelle community online - tantissimi ascoltatori, di diverse estrazioni, si sono trovate ad ascoltare i dischi del duo di Baltimora, ai quali tocca ora fare fronte a paragoni pesanti, su tutti quelli con Cocteau Twins e Slowdive.

Il nuovo disco, chiamato senza troppe fantasie “7”, si trova quindi a dover dissipare la perplessità più tipica che può circondare un disco uscito negli anni ’10 da un complesso già attivo da un po’ (in questo caso da quasi 15 anni): sarà chiamato a dimostrare di non essere diventati semplice “forma”, ma di proporre ancora “contenuti”. E questo vale doppiamente nel caso dei Beach House, alfieri di un Dream Pop/Shoegaze che, negli ultimi anni, ha visto susseguirsi un impressionante numero di cloni dal discutibile valore artistico e creativo, soprattutto grazie al boom della distribuzione su internet che ha dato grandi opportunità ai gruppi emergenti, ma ha anche eliminato ogni vaglio per la qualità e l’originalità di quello che venisse pubblicato.

Al varco, l’opener “Dark Spring” risponde presente: le chitarre ci sono, definiscono un’atmosfera ovviamente “dream” ma concreta, che si apre nel ritornello in un’ottima melodia all’attacco di “I Want to lie in/They call Orion” che lascia ben sperare. Altrove (“L’Inconnue”) le tastiere sono padroni ma non falliscono nel dipingere uno scenario fortemente suggestivo, permeato di linee melodiche dolcissime. A questo punto ci troviamo di fronte alla conferma del valore assoluto del songwriting di Scally/Legrand, che negli anni ha saputo deliziare con brani come “Norway” o “Lazuli”, per citare giusto due esempi.

Il disco non si accontenta del compitino, e diverse volte riesce in veri e propri salti di qualità. Questo è il caso di “Dive”, brano estremamente potente che trova un grande alleato nell’efficace drumming di James Barone e nel mixaggio delle chitarre che fa tornare alla mente “How Soon is Now?” degli Smiths, alfieri del pop daiquali tutto parte e ai quali molto ritorna. Il brano migliore, tuttavia, è portato dai sette minuti finali di “Last Ride”, che inizia con un fiume elettronico nel quale si innestano prima una chitarra in acustico, quindi una elettrica, dolcemente distorta, a concludere un brano che meriterebbe di essere annoverato tra i capolavori dello shoegaze.

In conclusione, è vero che l’ascolto di nuovi dischi da parte di band acclamate rischi di fregarci, di nascondere dietro un po’ di mestiere una carenza creativa. Tuttavia, se da un lato siamo chiamati a non farci fregare, dall’altro dobbiamo essere anche in grado di riconoscere qualcosa di veramente bello e di valore come questo 7. A mio parere, si tratta del miglior disco dei Beach House, e in tutta onestà mi sorprenderebbe ascoltare un disco più bello di questo uscito nel 2018.

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