Da quel 2 ottobre del 1983, in cui tutto ebbe inizio con la brevissima session per la registrazione dello splendido esordio di The Axeman’s Jazz, ne è passata di acqua sotto i ponti e di Bourbon nelle gole di Tex perkins e soci. Una lista infinita di palchi calpestati e sette album in studio, compreso quest’ultimo che potrebbe essere l’epitaffio per siffatta specie di super gruppo in cui, nei quarant’anni di attività seppur rarefatta, hanno bivaccato stabilmente o solo sostato per una bevuta veloce, alcuni dei migliori musicisti provenienti dalle terre down-under.

Dopo l’eccellente Little Animals del 2007, le Bestie del Bourbon, furtive, si erano ritirate nuovamente nella bruma delle swampland australiane da cui erano emerse. Ma dopo le loro scellerate incursioni eravamo abituati a vederli scomparire per lunghi periodi, sazi delle loro prede, o per meglio dire, ebbri.

Dodici anni dopo quell’ultima apparizione, nel 2019, come in una di quelle storie gotiche in cui il male torna ciclicamente a manifestarsi, le Bestie riappaiono ma questa volta senza Bourbon. Il sole oscuro, ma ancora incandescente, dei Beasts of Bourbon torna a sorgere in un’alba luttuosa ed addolorata per la perdita di Brian Hooper e Spencer P. Jones - portati via dal cancro a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro - che riduce Tex Perkins e compagni a The Beasts.

Still Here. Ancora qui. Il titolo di quello che ad oggi è l’ultimo album dei Beasts of Bourbon o il primo dei Beasts, risuona come un grido di sfida dei superstiti nei confronti del Destino. Ed il piglio è sempre quello feroce e sgangherato dei più venerabili ed animaleschi cantastorie d’Australia, lo stesso di Iggy Pop e Captain Beefheart, di Nick Cave e Tom Waits. Still Here raccoglie e reinventa gli elementi sonori che hanno reso la band ciò che è, in un momento che fa sembrare questo disco una sorta di veglia irlandese, un peana per i compagni perduti. Ma se il momento è cupo, l'atmosfera generale di Still Here è impregnata di un umorismo nero e di un anelito di resistenza che rende l'album più simile ad una rauca celebrazione di tutto ciò che la band ha sempre rappresentato, che ad una raccolta di canti funebri.

Basti pensare che Brian Hooper, sei giorni prima di morire, ha voluto suonare - sebbene costretto sulla sedia a rotelle - all’emozionante concerto organizzato dalle Bestie del Bourbon per raccogliere i fondi indispensabili per le sue cure. E Spencer P. Jones - Jonesy come lo chiamavano gli amici - gravemente malato, ha fatto in tempo ad entrare in studio per donarci “At The Hospital”, tanto commovente e disturbante quanto ironica e irriverente.

Un album, dunque, dei restanti membri della band, con Kim Salmon e Boris Sujdovic che tornano all'ovile, e con contributi di quasi tutti i membri passati e presenti della band, registrato solo un paio di settimane dopo il loro ultimo concerto con Hooper e composto per lo più da idee abbozzate, improvvisazioni e da due cover, secondo il modello adottato per la registrazione di The Axeman's Jazz in quella fatidica session di otto ore, nel 1983, costata 100 dollari australiani per l’affitto dello studio e molto di più in alcolici. Jones è lì, ma come anticipato sarà presente solo su una traccia.

Si inizia con il pestaggio sonoro Punk’n’Heavy di “On My Back” di Tex Perkins e “Pearls Before Swine” di Kim Salmon, entrambe tanto rabbiose, sporche, desolate e feroci da tramortire pur senza uccidere. Degne aggiunte alla scaletta sono le cover di Warren Zevon, “My Shit's Fucked Up” (poteva esserci cover più appropriata per i Beasts?), così come il blues sfigurato di “The Torture Never Stops” di Zappa, con un suono viscoso e scuro come petrolio.

Si potrebbe dire che ballate cupe come "Just Let Go" del frontman Tex Perkins non hanno la stessa deformità psicotica degli esordi, e che “It's All Lies” e l'esilarante, conclusiva “Your Honor”, suonano come idee non completamente sviluppate, costruite su due accordi. Ma si potrebbe rispondere che le Bestie, nel bene e nel male, sono più mature e che il rovescio della medaglia è il tenebroso ed ipnotico spoken di “Don't Pull Me Over” che esplora ancora efficacemente il confine tra avant-garde e rock'n'roll primordiale, imparentato alla lontana col Nebraska di Springsteen. "Drunk On A Train" è sfrontato garage rock che continuerà a farti battere il tempo e dimenare il culo anche dopo che sarà calato il silenzio. “What The Hell Was I Thinking”, scritta da Hooper, suona come una jam dei Rolling Stones a tarda notte, con la bruciante elettricità della slide e le chitarre acustiche che tessono una danza da ubriachi e Perkins che si lamenta delle proprie malefatte con il suo meraviglioso ululato da licantropo del country.

Ma l’apice del disco è il lento e paludoso blues di "At The Hospital", in cui ritroviamo - per l’ultima volta - Spencer P. Jones, dal tono tipicamente sciolto, ironicamente acuto ed incredibilmente oscuro, che se la ridacchia tristemente.

Still Here è un album imperfetto e queste, anche se ci piacerebbe tanto, non sono le Bestie del Bourbon. Per esserlo, dovrebbe esserci la chitarra di Jonesy in ogni traccia! Eppure, Still Here è un vero disco di rock'n'roll. Devastante, sporco, divertente ed anche un po' inquietante. E questo è tutto ciò che vogliamo dai Beasts. Questa non è una reinvenzione del rock'n'roll. È una celebrazione. È un gruppo di musicisti che hanno capito, in un momento difficile e doloroso, che volevano continuare a fare musica insieme anche per onorare chi ha lasciato i compagni di sbronze ed è andato a bere altrove. Definitivamente.

Non sappiamo se Still Here rimarrà l’ultimo album di questi australiani che dai tempi di “Psycho” hanno accompagnato me e molti altri per gran parte delle nostre vite. Possiamo, però, dire a voce alta e con orgoglio condiviso che le Bestie, ingrigite, ferite, incattivite - comunque vada - sono ancora qui e, malgrado tutto, ancora con la loro bottiglia di Bourbon.

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