1. Quando abbiamo smesso di capire il mondo

Lo scrittore cileno Benjamín Labatut (n. Rotterdam, 1980) tenta di afferrare lo spirito del tempo: folle immersione nella tremebonda incertezza.

Nel 2021 Adelphi ha pubblicato la terza opera dello scrittore, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (ed. orig. Un verdor terrible, 2020): qui Labatut tenta di «tracciare la rete di associazioni, idee e scoperte all’origine della chimica, della matematica e della fisica odierne», le quali «costituiscono il cuore dell’attuale visione del mondo»[1]. Tra realtà e invenzione affiorano i profili di Fritz Haber, Alexander Grothendieck, Werner Heisenberg, Karl Schwarzschild ed Erwin Schrödinger, mentre divampa il fuoco della scoperta scientifica.

Ecco, La pietra della follia – libriccino di 77 pagine – costituisce il prolungamento del discorso incominciato da L. in Quando abbiamo smesso di capire il mondo.

2. Páthei Máthos

Le riflessioni di Labatut muovono da quello sgomento che ha travolto, per almeno un istante, ciascuno di noi: «chi non ha percepito, o percepisce tuttora, la spada di Damocle che pende sulla propria testa, il tremendo sospetto di non valere niente, di non avere alcun talento, di non essere in grado di far nulla che sia degno di nota, bello o di valore, e che, per quanto ci si sforzi, si finirà dimenticati, non visti o, peggio ancora, derisi e ridicolizzati? Chi non ha mai avuto la sensazione che, in fondo, scrivere non serva ad altro che a scavarsi la fossa? Chi non ha lavorato a testa bassa senza sospettare nemmeno una volta che tutta quella fatica servisse solo a riempire la propria tomba, pronti come siamo a sostenere i nostri castelli in aria, costi quel che costi?»[2].

Breve: uomini del XXI secolo che cercano disperatamente un senso all’innominabile attuale[3]. Il saggio di L. affonda in questa inconsistenza dove – ammazzato Dio[4] – tutto è vero e, al contempo, falso. Nel ventre molle della postmodernità risuona il grido «dobbiamo conoscere! Conosceremo!»[5].

3. Il vecchio muore e il nuovo non può nascere

Viviamo, osserva Labatut, in «un incubo collettivo e paranoico nel quale non possiamo mai essere davvero sicuri di ciò che sentiamo, ascoltiamo, diciamo e addirittura pensiamo. Non abbiamo [paradossalmente] più accesso al reale»[6]. Prosegue L., «forse ci troviamo in una fase in cui le antiche storie che coglievano il senso del mondo stanno crollando, e in questo momento, prima che emerga un nuovo grande racconto, una massa di trilioni e trilioni di frammenti senza significato precipita nel vuovo, e per un breve periodo storico siamo immersi in un mondo che non ha alcun senso»[7].

Annotazioni che afferrano un pensiero ricorrente. Per una mistura di caso e volontà Ermes smonta e rimonta fatti allo scopo di sostenere la non corrispondenza (convergenza = punizione) delle fattispecie concrete rispetto alle fattispecie, generali e astratte, imbastite dal legislatore. Mentre il tavolo è ricolmo di ingranaggi affiora il sospetto: non esistono verità, ma soltanto infinite possibilità egualmente vere e false. Più intenso è lo sguardo, più intenso è il dubbio.

3.1 Lovecraft

Cosa significa vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo?

Dio è morto e, al suo posto, il sapere scientifico è salito al trono. D’altronde, «la scienza non è soltanto metodo, ma anche delirio metafisico: l’illusione di pensare che questo nostro mondo sia conforme a un ordine, un ordine che possiamo non soltanto riconoscere, ma persino comprendere»[8].

Nella complessità il passo è inquieto, mentre gli altoparlanti ripetono: occorre avere fede nelle scienze – paradosso della ragione – il loro indecifrabile sapere è inaccessibile alla massa. È necessario credere. Il principio di autorità quale costante della storia, al di là del bene e del male.

Nel frattempo la fiaccola della ragione illumina quell’intricato labirinto che sta prendendo forma intorno a noi: i corridoi pullulano dei mostruosi prodigi del progresso scientifico. Epperò, il mito del libero arbitrio è infranto[9], le simulazioni di Lorenz mostrano un cosmo sensibile a variazioni infinitesimali[10], i teoremi dell’incompletezza di Gödel provano che «in qualsiasi sistema logico abbastanza potente e in grado di formalizzare operazioni aritmetiche di base ci saranno sempre verità che, per quanto vere, non potranno essere dimostrate all’interno di quel sistema; e che, applicando le medesime regole, si potrà dimostrare tanto un enunciato quanto il suo contrario»[11].

In questo mare magnum «a mano a mano che la scienza lentamente dipana i misteri dell’universo, la realtà che si presenta ai nostri occhi è, per paradosso, ancora più difficile da afferrare»[12]. Il caos come metafora della nostra condizione attuale: da un verso, la fede nella ragione; per altro verso, il riemergere di credenze arcaiche con rassicuranti modelli esplicativi[13].

Lovecraft presagisce «finora le scienze, perseguendo ognuna la propria strada, ci hanno danneggiato in minima parte; ma verrà il giorno in cui il mosaico di tutti i frammenti della conoscenza ci offrirà una visione talmente agghiacciante della realtà, e del posto che occupiamo al suo interno, che o impazziremo dinanzi a quella rivelazione, oppure rifuggiremo l’illuminazione rintanandoci nella pace e nella sicurezza di una nuova era oscura»[14].

4. Cura della follia (o Estrazione della pietra della follia)

Al Museo del Prado è esposto un minuscolo dipinto: Cura della follia (o Estrazione della pietra della follia) di Hieronymus Bosch[15]. Il pittore raffigura una superstizione medioevale: l’idea che la pazzia fosse causata da una pietra – in B. un tulipano – che poteva essere impiantata o crescere spontaneamente nel cranio; nella scena la pietra viene asportata da un chirurgo con l’intento di guarire il folle.

Il delirio della ragione che coltiva la speranza di poter afferrare l’inconoscibile. Michel Foucault scrisse: «non dimentichiamo il famoso medico di Bosch, ancora più folle di colui che egli vuol guarire: poiché tutta la sua falsa scienza non ha fatto molto di più che deporre su di lui i peggiori stracci di una follia che tutti possono vedere tranne lui stesso»[16].

Avanziamo in questo interregno dove – crollati i miti del passato, mentre gli antichi demoni continuano a strisciare ai nostri piedi – le scienze proseguono nel tentativo di conoscere ogni anfratto del reale. Vagabondiamo nella complessità di spaventevoli mondi, depurati dalla magia, dove soffiano i venti del nulla.

A questi sommovimenti guarda, con inquietante lucidità, Labatut nella Pietra della follia.

«Ma forse il titolo del dipinto ci trae in inganno. Forse il chirurgo non sta estraendo una pietra, ma impiantando qualcosa, un tulipano, un fiore che una volta sbocciato svetterà nella testa del paziente col suo lungo stelo senza foglie, un fiore che schiudendo i suoi cerei, pallidi petali rintrodurrà nel nostro mondo i frutti velenosi ma fertili della follia, i quali, riportati alla luce dal sottosuolo dove avevamo cercato di seppellirli, si leveranno dal nulla in cui la ragione relega tutto ciò che non accetta e non comprende, o tutto quanto ci rammenta che noi, che abbiamo conquistato la superficie della Terra, che si siamo immersi nelle profondità dell’oceano, spinti oltre la nostra atmosfera, dove vivono soltanto le stelle, conteniamo una legione di angeli e demoni sui quali non avremo mai pieno contro, a prescindere dal progresso della nostra civiltà»[17].


[1] B. Labatut, La pietra della follia, trad. it. L. Topi, Adelphi, 2021 (ed. orig. The stone of madness, 2021), p. 25.

[2] Ibidem, pp. 65-66.

[3] R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, 2017.

[4] «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?»; F. Nietzsche, Gaia scienza, trad. it. F. Masini, Adelphi, 1977 (ed. orig. Die fröhliche Wissenschaft, 1882), aforisma 125.

[5] Così il matematico D. Hilbert citato in B. Labatut, La pietra della follia, cit., p. 18.

[6] Ibidem, p. 24.

[7] Così il regista Adam Curtis; ibidem, p. 35.

[8] Ibidem, p. 47.

[9] «Ahi! Sono di fronte a una scelta difficile. Sono inquieto. Ok, ho deciso! Nell’atto di scegliere provo un’esperienza di appartenenza: la scelta è mia, mi appartiene, sono io il libero autore della scelta e ne sento la certezza. Comunque, anche se non avessi avuto dubbi, anche se ex post fossi insoddisfatto, avrei operato una libera scelta. Ma, nonostante la certezza che sento di essere stato io a decidere, sono stato veramente io a farlo?»; G. Tratteur, Il prigioniero libero, Adelphi, 2020, p. 4.

[10] B. Labatut, La pietra della follia, cit., pp. 40 ss.

[11] Ibidem, p. 23.

[12] Ibidem, p. 44.

[13] Sulle millenarie teorie di complotto e sul ratio-suprematismo, Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, 2021.

[14] B. Labatut, La pietra della follia, cit., p. 13.

[15] https://it.wikipedia.org/wiki/Estrazione_della_pietra_della_follia#/media/File:Extraction_of_the_Stone_Hieronymus_Bosch.jpg

[16] B. Labatut, La pietra della follia, cit., p. 54.

[17] Ibidem, p. 74.

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