Difficile trovare un verosimile esempio di sport, patriottismo, spettacolo, orgoglio nazionale, commercialità e pomposità mediatica come il Super Bowl, la finalissima del campionato di football americano, in qualsiasi altro contesto globale. Milioni e milioni di spettatori incollati davanti al televisore, grandi corporazioni e mega società che battagliano sino all'ultimo nanosecondo per accaparrarsi gli sponsor e un giro di affari che elude tranquillamente crisi e recessione trasformano una normale chiusura di un torneo in una macchina mediatica ed economica invereconda, aliena, mostruosa, grandiosa. E il meglio (ma anche il peggio) della U.S.A. trademark si palesa nell'altrettanto celebre Halftime Show, il palcoscenico yankee più felice e redditizio in cui i migliori (e peggiori) esemplari della tradizione sotto il segno dello Zio Sam, detentori di un autentico pedigree a stelle e strisce, intrattengono il foltissimo pubblico durante la pausa della battaglia finale: tanto per (cercare di) fare una plausibile comparazione con l'Italia, è come se durante la finale di Champions League Milan-Inter a San Siro si imbastisse uno spettacolo mediatico-musicale proposto da italici purosangue del calibro di Vasco Rossi, Laura Pausini, Ligabue, Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro, Al Bano e compagnia bella. Questa trasposizione belpaesana non è stata (grazie a Dio) ancora concretizzata, tuttavia non è detta l'ultima parola.

Sul palco dell'Halftime Show se ne sono viste di tutti i colori. Inizialmente riservato a piccole band o gruppetti teatrali poco inclini a scenografie e coreografie faraoniche, lo spettacolo ha iniziato a ingrossarsi di vips e mostri sacri solo con gli anni Ottanta e Novanta con l'approdo di Michael Jackson, Diana Ross, Phil Collins sino a giungere, nel 2004, al famoso duetto Justin Timberlake-Janet Jackson con l'altrettanto celebre capezzolo della signorina al vento. L'ultimo show, nel 2012, ha visto nientedimeno che la possente Madonna calcare il palco di Indianapolis, autocelebrare il trentennio di carriera con brani quali Vogue, Like a Prayer e l'allora inedito Give Me All Your Luvin' e performare assieme ai colleghi LMFAO, Nicki Minaj, M.I.A. e Cee-Lo Green.

Per poter proseguire con successo il trend delle prestigiose firme musicali made in USA lo scettro del Super Bowl sul pentagramma è stato affidato all'ammaliante Beyoncé, in procinto di costruire il suo comeback dopo i discreti risultati dell'ultimo lavoro 4. Donna di fama internazionale, fattezze inebrianti, un neo marito rapper e padrone di un impero discografico di proporzioni allucinanti, una figlia (Blue Ivy) avuta da poco e tanta voglia di non fermarsi alla maniera delle umili madri medio-borghesi delle nostre latitudini, la signora Carter non poteva che approfittare di una succulenta occasione come questa per mettere a tacere le numerose voci maligne sul proprio conto e tornare a riavvivare i cuori spompati degli aficionados a bocca asciutta di voce, sedere e hits da ormai più di un anno. L'inizio di questa avventura non è stato tuttavia uno dei più felici: feroci critiche le sono piombate addosso come una scarica di mitra dopo la performance pre-registrata (e dunque fasulla) dello Star Spangled Banner alla cerimonia del secondo insediamento di Obama alla Casa Bianca.

L'Halftime Show di Beyoncé non è stato uno spettacolo infarcito di scenografie mastodontiche, ballerini a iosa e palcoscenici regali, ma - al contrario - una performance piuttosto essenziale dal punto di vista degli orpelli. La nostra panterona, mise nera e in forma smagliante (alla faccia della gravidanza), ha debuttato, al termine di una volatile sprizzata di fuochi e luci sagomate, con gli acuti vocalizzi strumentali di Love on Top per poi contorcersi, sculettare, ancheggiare e ondeggiare sensualmente sulle note di Crazy in Love e della pseudo-tribal End of Time, accompagnata naturalmente da un degno seguito di avvenenti ballerine. In un' "orgia" di danze e balletti l'atteso medley di brani prosegue con l'arabica Baby Boy e con un'infelice reunion con Kelly Rowland e Michelle Williams sotto il segno delle ormai defunte Destiny's Child: le colleghe, difatti, dimostrano persino post mortem (della band) di essere trascurabili comparse che poco aggiungono, in fatto di movenze e vocalizzi, ai loro vecchi successi Bootylicious e Indipendent Women. Cestinate le amichette di antiche merende da milioni di dischi venduti dopo la famigerata coreografia di Single Ladies, Beyoncé torna raggiante, unica, trionfale e regale con la ballatona strappalacrime conclusiva Halo.

Lo show ha già ricevuto pareri discordanti e non sono mancate le consuete comparazioni con la passata esibizione di Madonna. Beyoncé è sicuramente apparsa raggiante, splendida e ammiccante, eppure si attendeva uno spettacolo in cui si equilibravano e si bilanciavano ballo e canto in un perfetto unicuum di talento. Scatenata, dinamica, sicura e leggiadra nei movimenti, la diva è comunque riuscita nel conferire un tocco "hot" ad una serata carente di presenza femminile, scaldando i cuori (e non solo quelli) dei convenuti a New Orleans e dei telespettatori i quali, senza dubbio, hanno risentito poco di una performance non eccessivamente esuberante di vocalità. Bizzarre anche la strategia dei brani selezionati (tutti vecchi successi e neanche la presentazione del primo singolo tratto dal nuovo album che avrebbe aiutato le relative vendite) e la comparsata, totalmente inutile, delle ex Destiny's Child, inevitabilmente prive di un carisma degno della protagonista come pure della capacità di arricchire con mezzi propri i pochi minuti trascorsi sul palcoscenico.

Che dire, allora, del Super Bowl targato Beyoncé? Show decisamente coinvolgente, danze sensuali e catalizzatrici, pochi ma validi acuti (ancora pre-registrati? Mistero), per un serata in cui anche le signore hanno potuto giocare, sebbene per un solo quarto d'ora, sul magico parco giochi dell'estasi americana.

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