A causa di una non incline passione per il jazz e per il blues di un mio caro amico più incline al rock post/'80, mi è cascato in terza mano, fresco fresco un mesetto e mezzo fa, questo dischetto di Bill Frisell, una delle ultime pubblicazioni discografiche del 2014.
Conosco per fama il chitarrista statunitense, anche se non ho mai approfondito nulla in particolare delle sue produzioni.
L’artista in “Guitar in the Space Age!” omaggia ciò che per lui è una specie di genesi e di ispirazione del suo percorso musicale, dodici brani più o meno seminali di matrice folk, country, blues e rock ‘n roll incisi tra la fine degli anni cinquanta e la prima meta degli anni sessanta e che lasciarono un segno tangibile nella fase puberale/adolescenziale di Bill, periodi fondamentali in cui la “sei corde” iniziava a diventare strumento di prime autentiche sperimentazioni e a tracciare quel percorso evolutivo e culturale delle varie sfaccettature del rock.
Onestamente non me ne intendo una benemerita mazza di chitarre, dato che da più di vent’anni mi diletto con tutt’altro strumento, però da audiofilo non ci vuole un genio a capire chi sa suonare e chi no. Tuttavia non starò qui neppure a vivisezionare ogni singolo pezzo, ma la sensazione, appunto, che mi ha scaturito questo cd è certamente più che soddisfacente.
Le rivisitazioni vestono ovviamente i brani a nuovo, senza stravolgerli e snaturarli e la maestria con la quale vengono inseriti a piccole dosi effetti psichedelici, swing e jazz è notevole.
Tra gli episodi più fortunati, lo stile western di Morriconiana memoria di "Pipeline" degli Chantays che apre le danze e a seguire in filotto si prosegue in quinta con "Turn, Turn, Turn" di Pete Seeger, "Messin’ Whit the Kid" di Mel London, “Surfel Girl” dei Beach Boys e il rognoso blues di “Rumble” di Milt Grant.
E’ lo stesso Frisell a spezzare il clima coveristico, propondendo a metà e verso la conclusione del disco “The Shortest Day” e “Lift Off”, due brani inediti dall’astmosfera rarefatta e ipnotica, atmosfera che riconferma in "Reflections From the Moon" di Speedy West.
In alternanza nella seconda parte altri passaggi notevolmente interessanti dei generi predominanti dell’album dalle più “leggere” surfistiche “Rebel Rouser” di Duane Eddy e “Baja” di Lee Hazlewood, il ritmo swingato di “Bryant Boogie‘s” di Jimmy Bryant, il country di “Cannobal Rag” di Merle Travis e il delicato tappeto psichedelico in “Tired of Waithing for You” di Ray Davies e “Telstar” di Joe Meek che chiude i 55 minuti di “Guitar in the Space Age!”
La sontuosa sezione ritmica affidata ai giri di basso di Tony Scherr e alle percussioni di Kenny Wollesen e le incursioni mai prepotenti delle chitarre, utilizzate in tutte le salse e protagoniste assolute, in cui oltre a Frisell nel gioco degli assoli ci sguazza allegramente spesso in coppia anche il collega Greg Leisz, non lasciano spazio a critiche negative.
Quindi per chi volesse riassaporare brevemente quel clima "iuessei", si procuri questo piacevole cd tutto rigorosamente strumentale. Ricordatevi solo che non vi troverete sotto il sole dell'Oklahoma sulla Route 66 a bordo di una Pontiac Cabrio in uno spensierato pomeriggio assolato del 1965, ma molto probabilmente su una nebbiosa Statale italiota piena di buche con i pioppi a far da contorno poco fuori dalla banchina. Quindi alzate il volume e lavorate di fantasia.
Carico i commenti... con calma