Introduzione:
Come noto a quasi tutti gli appassionati di musica rock il nostro Billy, a metà anni novanta ed ancor quarantenne, si chiamò fuori dalla routine del comporre e registrare nuovo materiale (“Tutto quello che avevo da dire l’ho detto…”). A quel punto il booklet di canzoni messo insieme in vent’anni di carriera è venuto buono pure per il successivo quarto di secolo, che ha visto e ancora vede BJ impegnato più o meno sporadicamente a riproporre i suoi numerosi successi su di un palco. Attività questa ancora indispensabile perché, come dice lui, “…gotta feed the elephant…” riferendosi ai numerosi addetti ai lavori della sua organizzazione, il gruppo fisso che lo accompagna dal vivo, i tecnici il direttore artistico eccetera. Per tacere dei lussi personali come le villone a Long Island e in Florida, il cuoco italiano, la collezione di motociclette d’epoca, il maneggio di cavalli dell’attuale quarta moglie e gli emolumenti a quelle che l’hanno preceduta, da lui affettuosamente differenziate in ex-1, ex-2 ed ex-3.
Essendo la ex-2 (mi si permetta la prolungata disgressione) quella gnocca astrale della supermodella Christie Brinkley, conosciuta una sera che gli s’era accostata al pianoforte mentre che lo suonicchiava nel bar di un Hotel su di un’sola caraibica. Lei era scortata dalle amiche Elle Macpherson(!) e Whitney Houston(!) e come prima reazione a quel panorama al nostro piano man venne in mente di ringraziare quietamente sua madre per averlo così fermamente sospinto da ragazzo, spesso suo malgrado, a prendere tutte quelle lezioni di pianoforte. Continuano a narrare le biografie che quella sera la povera Houston, all’epoca ancora teenager e sconosciuta, a un certo punto gli chiese di essere accompagnata al piano su di una canzone di Aretha Franklin: lui eseguì gentilmente per ritrovarsi poco dopo, assieme a tutti gli astanti, con la mascella bloccata… la giovane mulatta viaggiava a sirena spiegata e stava sventolando tutti fuori dall’albergo!
Tornando all’attuale tran tran di BJ, per nutrire quel suo elefante ha pensato da anni in qua di abbonarsi ad esibizioni a scadenza mensile al Madison Square Garden, ossia neanche venti minuti di elicottero da casa sua, riuscendo ad ottenere sinora sempre il tutto esaurito. Si tratta nella fattispecie di volare via dal piccolo eliporto di casa al pomeriggio per il sound-check e tornarvi cinque ore dopo a sera tarda con tutto finito. Come dice lui: “Due ore da Mussolini davanti a ventimila persone entusiaste, e dieci minuti dopo sono di nuovo un qualunque pirla nel traffico di New York”. Si, ma quel pirla in quelle due sudate ore ha guadagnato un milione di dollari almeno, e l’elefante può mangiare a sazietà...
L’ormai anzianotto Billy continua a metter su chili, ma ha scelto di fregarsene (“Sono della scuola di Jack Nicholson, trovo come lui non esserci nulla di più deprimente di un uomo a dieta”). Da tempo le sue performances sono un po’ ansimanti, ma ancora energiche: si ripromette di smettere quando sentirà di non aver più adeguata forza, oppure quando i fans della Grande Mela cominceranno a lasciare dei vuoti nel Garden, quale che sia il primo di questi due accadimenti. Fra i suoi accorgimenti da vecchio entertainer c’è quello di spruzzarsi in gola ogni tanto, tra un pezzo e l’altro, uno spray anti asmatico; inoltre, da tempo ha fatto abbassare di tonalità le canzoni la cui melodia si spingeva troppo in alto per la sua emissione una volta tenorile e ora baritonale; infine, ha sostituito il tradizionale banchetto da pianista con uno stand da batterista regolato bello alto, in modo da aiutare il diaframma a sollevarsi meglio per il canto, e pazienza se la postura così alta sulla tastiera compromette un po’ la tecnica pianistica, è più importante il fiato.
Contesto:
Quest’album del 1986 è il suo decimo, e terz’ultimo, di inediti; ne seguirono solo un altro nel 1989 e l’ultimo datato 1993.
Gli anni ottanta sono notoriamente bollati dalla maggioranza dei musicofili come il periodo peggiore della musica pop e rock (stante comunque la presenza in essi di fulgide gemme, ovvio) e caso vuole che il 1986 ne sia in assoluto il momento peggiore. Per dire, nella mia fornita discoteca trovano posto, relativamente a quel decennio, dal minimo di trentadue album dell’81 e dell’84 al massimo di cinquantuno dell’89, a parte il appunto il suddetto anno nero 1986 che ne conta solo diciannove!
Questo lavoro di Joel finisce perciò per essere facilmente, a mio giudizio, uno dei migliori prodotti di musica popolare di quell’annata (anche se certo non il vertice dell’artista), questo pur soffrendo in parte delle infelici mode di produzione del tempo: sintetizzatori ingombranti, riverberacci alla Phil Collins sulla batteria e via così.
BJ all’epoca stava benone e aveva il vento in poppa, ancor fresco di nozze con la strafiga Uptown Girl Brinkley e con la recente paternità della loro Alexia, nonché ancora a monte di tutti i casini legali che avrà con discografici ed avvocati a fine anni ottanta per la tutela delle sue royalties. Il disco forse soffre un po’ di questa fase tranquilla e gioiosa giacché il nostro ha sempre, lodevolmente, fatto canzoni per raccontare vere e buone storie (sue, della sua vita), tutto da solo e senza aiuti né per le musiche né per le liriche e allora vale la solita legge per la quale più gli argomenti e i ricordi e i casini sono impegnativi, meglio rende la loro traduzione artistica.
Insomma: “The Bridge” non è capolavoro ma solamente l’ennesimo buon disco di Joel, d’altronde uno dei pochi artisti rock e pop settantiani che non ha risentito più di tanto della crisi generale degli anni ottanta (tutti i suoi dischi di quel decennio sono infatti validi, e molta gente considera alcuni di essi suoi capolavori) continuando, anche in quel periodo molto condizionante, a creare senza troppe forzature la sua musica fatta di soul blues, Beatles, influenze jazz, operistiche, country, hard rock.
Punti di forza e lacune:
I dischi di Billy Joel sono importanti, ben venduti e interessanti perché il nostro è uno dei conclamati (specie in USA) geni viventi di quel sottogenere di pop pensato e fatto col pianoforte: a furor di popolo il numero due al mondo dopo Elton John, suo ex-amico col quale si è esibito per lungo tempo in duo per il tripudio di tutti i poppettari pianofortari al mondo. Tutto andò a schifio fra di loro quando Elton decise di lavare panni sporchi in giro, raccontando alla stampa quanto l’amico fosse inaffidabile (concerti insieme cancellati ecc.) a causa dei persistenti vizi del bere e sniffare, conditi dalla poca volontà di smettere. “…Quando è toccato a me, a fine anni ottanta, è stata una cosa seria, dovevo dare lo straccio ai pavimenti e cose simili, nel posto dove mi stavo curando…” aveva da dire sir Elton. Billy gli replicò solo blandamente (“Elton is Elton,...”) ma se l’è in qualche modo legata al dito: “…, mi ha sempre percepito come fratello minore…” (fra loro corrono due anni di età, ma quattro di carriera perché Elton agguantò il grande successo a ventiquattr’anni nel 1971, Billy a ventisei nel 1975).
In realtà hanno entrambi lo stesso illustrissimo piano man come capostipite (sia per la musica che per i vizietti, a ben vedere…), certo Ray Charles. Così va il mondo, questi tanto bravo e famoso e seminale ma meno universale ed eclettico, così il grosso dei soldi e della celebrità sono andati a quei due suoi talentuosi adepti. Era successo d’altronde anche a Beatles e Stones di cominciare scimmiottando i neri d’America e ricevendo subito ben altra attenzione rispetto ai loro maestri… per poi meritarsela tutta grazie alle variazioni sul tema brillantemente introdotte in seguito ma questo è altro discorso. Boicottato all’inizio in quanto nero, il povero Ray rimase apprezzato si, ma non universalmente spendibile in ambienti interessati solo alle faccende dei bianchi e allora bravo BJ ad affermare, durante il proprio discorso di ringraziamento in occasione della sua introduzione nella R’n’R Hall of Fame nel 1999: “Mi tacciano spesso di essere derivativo: ebbene lo sono come l’Inferno, e aggiungo che se questa Hall of Fame tenesse fuori i candidati sulla base dell’essere derivativi, non avreste mai avuto un bianco qui!”. Grande Billy!
Joel è piuttosto diverso da Elton come piano man: lui è (anche, o meglio molto di più) un rocchettaro. La vena di Elton e il suo pianismo hanno le radici più profonde negli anni cinquanta, nel rock’n’roll creatosi colla fusione di blues e country. Joel tiene presenti quegli stessi influssi, ma nel suo stile sono profondamente instillati pure quell’irrigidimento, appesantimento, sagomatura introdotti dalla loro successiva evoluzione in rock duro con le sue sincopi, il suo volume, la sua potenza, il suo essere più viscerale. D’altronde da ragazzo si vedeva te si voleva tosto, e provò di brutto a fare il metallaro in un inusuale duo organo/batteria chiamato (sic!) Attila. Troppo divertente ascoltare, nell’unico disco uscito sotto questo monicker, il ventenne BJ starnazzare con quanta voce aveva in corpo e nel contempo spernacchiare di Hammond, ma anche semplicemente ammirarlo in copertina, capellone e maraglio secondo i dettami del genere. In sintesi i due talenti: Elton John = Rock&Roll, più leggero e fluido, Billy Joel = Rock, più pesante e sagomato.
Perciò la forza di quest’album è quella comune a tutti i lavori di Billy Joel: si è in presenza di un talentuoso compositore di musica pop dalle variegate componenti, dosate via via in maniera diversa a consentire una bella varietà stilistica. Giocano a favore soprattutto le forti idee melodiche (saltuariamente memorabili, a livello del miglior McCartney), non di rado adagiate su sostanziose, occasionalmente geniali progressioni armoniche (nelle ballate, negli episodi più lirici e drammatici oppure intimisti, nei brani più lunghi e multipartiti), altre volte incastonate su decise e fragorose ritmiche rock oppure funky, per forza di cose meno ricche dal punto di vista motivico ma comunque dotate di ottimi “ganci” per farsi ricordare. Il tutto completato da testi quasi mai banali e quasi sempre a raccontare sue esperienze di vita, quindi molto sentiti.
La limitatezza di quest’album risiede invece nel relativo numero di episodi memorabili, per me tre sui nove totali, nonché nella presenza di un paio di riempitivi di poco interesse, fatto salvo il discorso già fatto sull’impatto, seppur relativo, delle mode perverse circolate negli anni ’80 a proposito di suono ed arrangiamento.
Le migliori:
A mio sentire le più riuscite canzoni risultano essere, in ordine di apparizione in scaletta, “This Is the Time”, “Baby Grand” e “Code of Silence”.
La prima di queste è la più celebre del lotto, non fosse altro che per essere stata a lungo la sigla italiana della famigerata soap opera “Sentieri”, imperversante per un buon ventennio su Mediaset tra anni ottanta e duemila per poi soccombere sul più bello (si fa per dire), per ciniche ma in questo frangente anche benedette ragioni di convenienza economica. Nonne e mamme la conoscono perfettamente quindi, ma ora è in corso una sua rimpatriata italica su larga scala poiché è stata recentemente riesumata per la pubblicità di una banca (di male in peggio…). E’ la classica ballata di specchiata consistenza melodica insaporita dal suo andamento dinamico, colle strofe sommesse e descrittive contrapposte al ritornello declamatorio e stentoreo. BJ abbozza una falsa partenza che serve da introduzione, poi si piazza quieto nella strofa a raccontare ad una tipa, intanto che passeggiano d'inverno in riva al mare, la classica vicenda del tipo messo molto male che è stato salvato,,da lei appunto: argomento più che scontato ma certo veritiero, dato il soggetto narrante e la circostanziata ambientazione. Quel che funziona alla grande è il sopraggiungere del ritornello. Dopo tanto di stop il buon Billy vi ci entra sornione, procedendo attraverso abili accordi che muovono i bassi fuori tonica per rendersi più interessanti, fino alla catarsi sulla bellissima frase di chiusura “You’ve given me the best of you, and now I need the rest of you”. Tutte le persone che si stanno innamorando dovrebbero trovare dentro di sé ed esprimere a chi di dovere questo concetto… personalmente mi sono innamorato del tutto di mia moglie quando, messici da poco insieme, le chiesi una notte cosa cercava da me e lei rispose di getto: “Tutto!”. Grande Billy.
“Baby Grand” è tutt’altra atmosfera e tutt’altro stile. Trattasi di un omaggio al soul jazz blues di Ray Charles col compianto Maestro stesso presente a cantare la seconda strofa, duettare a botta e risposta nella terza ed affiancare in tutto il brano il suo pianoforte con quello di BJ. Che figata! A sinistra il piano del titolare, a destra quello dell’ospite. Baby Grand a proposito è il nomignolo americano dato al pianoforte a mezza coda (due metri scarsi), la versione più diffusa e suonata dai musicisti rock e jazz rappresentando un valido compromesso fra la sonorità ideale consentita dal ben più ingombrante e meno maneggevole piano a coda intera e quella invece troppo limitata ed imprecisa dellp strumento ad un quarto di coda (circa un metro e mezzo), certo più maneggevole . Il pezzo non è niente di speciale in quanto a melodia e originalità... uno standard soul blues come tanti altri nel più puro e “nero” degli stili. Quello che si apprezza è la voce di Ray (che naturalmente dà dei punti all’allievo), l’aura di rispetto e riconoscenza di BJ verso il suo mentore, le quattro sapienti mani che si fronteggiano staccando liquidi e sapidi glissati sulle tastiere, ad arricchire il procedere della melodia. A me il soul blues annoia assai preso in grosse quantità, ma una canzone isolata e in questo contesto, così ripiena di sapienza, gusto, esperienza e di gratitudine verso lo strumento della propria vita e della propria fortuna, celebrato nell'occasione come sicuro rifugio alla propria tristezza e solitudine, non possono che provocarmi emozione e soddisfazione.
“Code of Silence” è di nuovo tutt’altro mondo, un motivo ben immerso nel suo tempo ossia gli Ottanta, e non secondariamente per la presenza di Cindy Lauper come ospite. La biondastra concittadina di BJ al tempo era sulla crestissima dell’onda... ad un’osservazione superficiale l’ennesima svalvolata agghindata post punk tutta grinta e urli, in realtà era stata immediatamente adottata da tutto il giro buono dei musicisti americani (portata in palmo di mano perfino da Frank Zappa, per dire): voce della madonna, intonazione assoluta, estensione anormale, personalità da vendere. Il suo timbro così diverso da quello di Billy buca il mix, le sue armonizzazioni sempre diverse e i caratteristici controcanti arricchiscono la melodia principale a cantilena fino al “gancio" finale rappresentato nell'occasione dall’epilogo del ritornello, quando lei gli "prende" la nona ed insieme si allungano in squisita armonia.
Il resto:
L'apertura “Running On Ice” subito indispone nel suo prologo con sgraziate, rigide sequenze di pianoforte e di rullante, poi si stabilizza in un groove in controtempo finto reggae nelle strofe, che subito corre a raddrizzarsi sulla cadenza “forte” nei refrain. La batteria è troppo alta nel mix… si cerca insistentemente lo stile di Stewart Copeland dei Police ma senza la minima speranza di coglierlo; c’è molta energia ritmica, in ogni caso, ma poco interesse motivico.
“A Matter of Trust” è Springsteniana fino al midollo: "Onetwothreefour!" iniziale, voce stentorea, melodia banalotta come nella migliore tradizione del genere Americana. Un vero stereotipo, di nessun fascino, stanti almeno le mie personali idiosincrasie nei confronti di Bruce.
“Modern Woman” è un bel funky jazz ben arrangiato, Joel vi esibisce la sua forte capacità di scandire melodie dall’amplissima estensione e parossistica quantità di sillabe. Unica pecca, il giro di basso fatto coi sintetizzatori, così tanto anni ottanta, troppo.
“Big Man on Mulberry Street” fa un bel salto all’indietro e precipita il disco nell’atmosfera da musical di Broadway, con tanto di sezione fiati fragorosa ed entusiasmante, farcita com’è di fuoriclasse come Michael Brecker e Ron Carter, in riuscitissima ospitata a far botta e risposta con gli accesi, ispirati, brillanti stacchi di piano del titolare, a suo agio ed anzi felice. Tutto tremendamente newyorchese, molto sexy e dinamico, salvo che per la prestazione vocale in falsetto del nostro… eufemisticamente non la scelta migliore.
La notturna “Temptation”, adeguatamente guarnita di sax afrodisiaco, sta a raccontare le fregole di BJ che invece di andare a lavorare al mattino se ne resterebbe a letto dalla sua bella che se ne sta lì ancora a girarsi fra le coltri. Niente da dire… ballata scandita, melodia scolpita, arrangiamento marpione e caloroso, nessuna concessione all’epoca; è musica senza tempo, classica e regolare americanata di vecchio pop, ben fatta.
“Getting Closer” è il riempitivo di chiusura, scanzonato e coll’aria di essere stato composto e suonato fra la sera e la mattina. Lo rivela il testo pieno di invettive contro il suo vecchio manager e la casa di produzione: evidentemente tali soggetti non si meritavano neppure una bella canzone. Brutto in special modo il piano ribattuto nel ritornello, già peraltro tirato via di suo come melodia. L’unico momento di vivido interesse finisce per essere l’assolo finale di organo Hammond dell’ospite Steve Winwood, ma anche lui ne ha tirati di migliori.
Giudizio finale:
Tre o quattro bellissime canzoni ed altrettante più che discrete, testi sovente interessanti e sporadicamente emozionanti, i sintetizzatori che purtroppo ogni tanto sormontano il pianoforte di BJ, validi accompagnatori e qualche ottima ospitata di bravi colleghi, un paio di pisciatine fuori del vaso nel senso di cavalcatine di altrui intuizioni musicali, ma in generale una onorevole ricerca di varietà e diversità: “The Bridge” è un lavoro consistente senza essere particolarmente memorabile. Belloccia pure la copertina, arte moderna americana pur essa, di tale Brad Holland.
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