Ce l'ha fatta. Certo, ci ha messo una buona decina d'anni, ma alla fine, nonostante in parecchi la dessero per spacciata, vittima della sperimentazione fine a se stessa (ed effettivamente dopo "Biophilia", che comunque conteneva più di un buon pezzo, era difficile contraddire una simile affermazione), Björk è riuscita a comporre il disco che molti si aspettavano da lei. E non per niente già dalla sua uscita, avvenuta prematuramente a causa di un leak illegale dell'intero progetto, in molti lo hanno paragonato a due capisaldi della discografia dell'islandese, quegli "Homogenic" e "Vespertine" rimasti fin'ora ineguagliati da lei stessa e non solo e, una volta tanto, un paragone di questo tipo non sembra essere stato buttato lì a caso.

"Vulnicura" (titolo che nasce dall'unione dei due vocaboli latini "vulnus", ferita, e "cura") infatti contiene diversi passaggi che rimandano ai dischi sopracitati, ma sarebbe sbagliato etichettarlo come un lavoro che guarda al passato: pur non presentandosi accompagnato da concept rivoluzionari (o pseudo-tali) e non proponendo particolari innovazioni in termini di sound (in particolare per quanto riguarda i beat, qui curati da Arca, sempre articolati e complessi e "sospesi", un po' come in "Vespertine") questa nuova fatica in studio della Guðmundsdóttir presenta una serie di caratteristiche che lo distanziano nettamente dai suoi predecessori. A partire dai testi l'intero lavoro si presenta infatti in una veste molto più oscura che in passato e in un solenne intrecciarsi di beat e archi l'ascoltatore viene prepotentemente trasportato in quella che a conti fatti è la vita vissuta dalla sua autrice immediatamente prima della composizione del disco (nello specifico la fine del matrimonio con Matthew Barney); mai Björk aveva scritto testi così intimi e personali, o perlomeno così biografici come ora e a giovarne è la sua voce che, in netta ripresa rispetto alla stanchezza che traspariva da "Biophilia", sembra aver ritrovato non solo la potenza, ma anche l'espressività dei tempi migliori, quasi fosse ringiovanita di colpo.

Altro elemento fondamentale del lavoro è la presenza intensiva degli archi, curati da Björk stessa, nonché un quasi totale abbandono della struttura tradizionale della canzone, che in "Vulnicura" è completamente assente, tanto che, se escludiamo i primi due pezzi, "Stonemilker" e "Lion Song", di strofe, ritornelli e bridge chiaramente distinti non c'è traccia alcuna: più che al pop infatti il folletto islandese sembra essersi ispirato alle arie liriche, costruendo brani dinamici e in continuo mutamento che si prendono tutto il tempo necessario per dispiegarsi ed evolversi senza voler per forza essere memorizzati e apprezzati da subito e basta dare un'occhiata alla durata delle singole tracce (sette su nove durano dai sei ai dieci minuti) per rendersene conto.

Ne consegue, in fin dei conti, un disco tutt'altro che facile e immediato (ma quando mai l'islandese ha realizzato lavori che non richiedessero di essere ascoltati più di una volta per esser capiti appieno?) e che probabilmente non piacerà a molti proprio per questo suo rifiuto della forma-canzone tradizionale. Per chi invece avesse voglia di ascoltarlo con la dovuta pazienza, ad aspettarlo c'è il miglior album di Björk dai tempi di "Medúlla" e il più intenso dai tempi di "Vespertine".

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