Definire il percorso artistico della Tony Iommi's band è un compito particolarmente arduo. Come molti sanno dopo la dipartita di Ozzy Osbourne, prima, e di James Dio, poi, il progetto Black Sabbath è stata una girandola di musicisti in cui decine e e decine di nomi illustri vi hanno fatto parte, quindi è difficile dire che la band sia stata legata ad un particolare genere nel corso della sua lunga carriera. Cambiano i Line-up, chiaramente cambia anche lo stile.

Ci troviamo nella seconda metà degli anni '80, dopo il mediocre successo di 'Born Again' (con Ian Gillian alla voce) il gruppo si scioglie completamente e Iommi si dedica ai suoi progetti solisti firmati comunque BS. Dopo una marea di collaborazioni (una tra tutte quella con Glenn Hughes per 'Seventh Star') Iommi ripristina l'ordine con una formazione stabile che vede Cozy Powell alla batteria, Lawrence Cottle (succeduto poi da Neil Murray) al basso ed uno straordinario Tony Martin alla voce.

Il nuovo singer rimarca lo stile del predecessore R.J. Dio ma porta alla band un forte cambiamento di genere: dimentichiamoci del doom dei primi lavori o dell'hard rock in stile Rainbow del secondo periodo, ora possiamo parlare di vero e proprio Epic Metal sia per la musica, che per i testi riguardanti diavoli, legioni di cavalieri, paura e morte (per carità non confondiamoli col Satanismo!). È in questi anni che vengono sfornati 3 capolavori come 'The eternal idol', 'Headless Cross' e 'Tyr'. Dopo tale premessa possiamo accingerci ad esporre il 2° lavoro di questo fantastico tridente. Il disco si apre con l'intro di tastiera (suonata dal session-man Geoff Nichols) "Gates of Hell" che ricorda in chiave particolarmente oscura il preludio di '2112' dei Rush.
Quando l'immaginazione si spinge verso chiese sconsacrate e cripte semi buie ecco che sentiamo l'esplodere di una batteria tanto geometrica quanto possente avvolta poi da una chitarra che presenta un suono differente da quello che eravamo abituati a sentire, ora il riverbero la fa riecheggiare nell'oscurità, ma possiamo comunque dire che il riff rimane di puro stampo Iommi. È il momento della Title Track che indica la direzione verso cui andrà tutto il disco: voci acute e incisive, sezioni ritmiche precise e di grande impatto sonoro ed una chitarra imperiale ma che non invade gli spazi altrui (al contrario di quanto si è sentito nel Live Evil).

"Devil & daughter" è il pezzo hard rock anni '80 per eccellenza, proprio in stile Dokken, la voce inizia a scaldarsi e gli archi aumentano la loro presenza, inoltre non c'è bisogno di dire quanto l'assolo di chitarra sia magistrale: inizia con un susseguirsi lineare ed andante di poche note su una semplicissima pentatonica per poi sfociare su un tapping a tutta forza. "When Death Calls" è il brano che vale tutto l'album, si apre con un connubio intimo tra voce e tastiere, ma quando parte il ritornello alcune linee di chitarra ci fanno ricordare vagamente i vecchi tempi di 'Electric Funeral' o 'Iron Man'. Intanto che scende qualche lacrima di Nostalgia "Kill in the spirit world" ci ritira su con una melodia che poco ha a che fare con i BS, tale impressione viene però spazzata via quando poco dopo il 2° minuto si giunge al giro classico rock metal LA- SOL FA in 4/4 che accompagna l'assolo (un pò come "Beyond The Realms Of Death" dei Judas Priest), ma ciò non smentisce la bellezza del pezzo.

"Call of the Wind" sembra un'appendice della track precedente, non dice nulla di nouvo: tempo smezzato sul bridge ma con la presenza una nota amara, ovvero il coro alla Duran Duran nel ritornello, purtroppo è lo spirito del tempo. "Black Moon" riporta un sound rock blues in memoria forse del decennio precedente a questo, il tutto però cozza leggermente con un solo questa volta "metalleggiante", ciò nonostante questi 3 accordi in 12 battute non possono che farti pensare "Long Live R'n'R!". Per concludere abbiamo "Nightwing", una ballad che merita di stare alla fine di un disco massiccio come questo, la struttura è la solita: una chitarra arpeggiata susseguita da riff che come "When Death Calls" rimurginano tempi ormai lontani.

Come ho detto all'inizio, questo gruppo ha passato una moltitudine di fasi differenti, ma ha saputo tener testa ad ogni cambiamento. Certamente, 'Headless Cross' non è un disco che ha segnato la storia come "Paranoid" o "Master of Reality", ormai si tratta di tutt'altra musica ma pur sempre buona musica. Voto pieno và dato a Cozy Powell e Tony Martin forse troppo sottovalutato dalle critiche. Se siete degli Osbourniani vi dispenso dell'ascolto, per tutti gli altri, godetevi questa piccola pietra miliare.

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