Quando Tony Iommi, il chitarrista che macinava riffoni con defaticante soluzione di continuità, e Ozzy Osbourne, il pazzoide che urlava la sua frustrazione sui palchi di tutto il globo, cominciarono a farsi mettere contro dalle sostanze che assumevano quotidianamente, anche i lavori in studio dei Sabbath cominciarono a diventare controversi, vittime a loro volta delle controversie dei loro progenitori. Quello che le vendite (ed i mai teneri giornalisti) chiamarono con soddisfazione declino, fu in realtà il tentativo di dimostrare al pubblico che il Sabba Nero era capace di uscire anche al di fuori dei suoi clichè. A ciò si aggiunse l'incostanza dei protagonisti del teatrino che pretendevano di rubarsi il palco a vicenda, fino al consumarsi dello split, in più atti ma senza appello.

Ma prima ci fu “Never Say Die” , testimone dell’autenticità creativo-stilistica dei quattro guasconi di Birmingham. Questi sono artisti che, nonostante le pressioni, non considerano i propri lavori solo un prodotto di vendita. Dunque la necessità di rinnovarsi, anche a rischio dell’ oblio stilistico. I dischi rock  "per i fan" sono robaccia che il music business lascerà in eredità a gente come Manowar e Motley Crue. Poi certamente chi è cresciuto a pane e “War Pigs” troverà stucchevoli i ritornelli freak di “Hard Road” ed insipide le fantastiche digressioni jazz-prog di “Air Dance” . Non si curerà dei preziosismi sparsi in giro per le tracce di questo capolavoro. Sì, capolavoro. Perché se Iommi avesse pubblicato questo disco camuffandolo da lavoro solista di uno Steve Hackett di turno, adesso staremmo a discuterne la caratura in acceso contraddittorio. Soprassedendo sul penoso sentito dire che "i Sabs sono morti dopo Sabotage" ed accantonata la pesante voce dei critici dell’ epoca, si può veramente parlare di questo disco: per quello che valgono le sue intense melodie, non sulla base di come deve suonare a tutti i costi un disco dei Sabbath.

L’ pener “Never Say Die” è di fatto l’ unico episodio davvero commerciale, per il resto il disco è tanto raffinato quanto visionario. Se il successivo “Heaven and Hell” sarà premiato col disco di platino, questo lavoro lo premieremo noi col "disco d’ avorio" : delle atmosfere di “Junior’s Eyes”, decadente e romantica, impreziosita dalle eleganti spirali bassistiche di Mr. Geezeer Butler. Dei tasti di un certo Don Airey su “Over To You” (e qui come sonorità siamo avanti almeno un decennio). Dell’incedere delle tastiere di “Jonny Blade”, episodio in stile Ozzy solista. Perché il suo successivo “Blizzard Of Ozz” spopolerà riciclando uno stile di "jonnybladiana" fattura. Ascoltare per credere. Lascia basiti l’estro del già citato esperimento che porta il nome di “Air Dance”, un brano di un Pat Metheny ante litteram recitato in chiave rock. Chiudono (ancora in chiave jazz) “Breakout” e “Swinging The Chain” , in cui Bill Ward bissa l’esperienza vocale avutasi (ahimè) due anni prima con “It’s All Right” . I risultati stavolta, sono quantomeno orecchiabili.

“Never Say Die” è il disco che i fan del Sabba Nero non capiranno mai, perché la versatilità è prerogativa di un’altra audience, perchè Iommi e compagni furono e sono ben altro che fenomeni di costume. P. S. Metto quattro di voto per attenermi all'ordine costituto che vuole quest’album non essere un gran che. Ma per me il voto è cinque.

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