Sul conto di Bob Dylan si è detto tutto e il contrario di tutto.

Qualcuno lo ha soprannominato folksinger, molti lo hanno bollato come traditore, altri ancora, infine, ne hanno decantato le virtù, e poi, meschinamente, ne hanno preso vigliaccamente le distanze.
Nel 1964, il ragazzotto paffuto e sorridente, chitarra in mano e coraggio da vendere, canta al mondo (e dunque all'America) che "The times they are a changin" (i tempi stanno cambiando) e inveisce, profondamente, contro i bigotti, i sapientoni, i professoroni, e persino contro i cantautori. L'invettiva, ovviamente, colpisce perfettamente il bersaglio e i poteri forti (Governo, deputati, autorità religiose) si scagliano ferocemente contro questo ventenne agguerrito e grintoso, capace, in poco meno di tre minuti, di osare l'inosabile. E visto che "The time they are a changin" è stato un successone, Dylan, sempre nel 1964, ci riprova con "Another side of Bob Dylan" ("L'altro lato di Bob Dylan", che poi è l'altro lato dell'America). Dylan abbandona, momentaneamente, le invettive contro il Potere e contro la guerra in Vietnam e si diverte a giocarsi la carta, pericolosissima, dell'introspezione e della fragilità emotiva. Le tematiche sociali spariscono quasi completamente, a risaltare è soprattutto il privato e la forza del rock.

La svolta rockeggiante dylaniana (contestata da milioni di fans) avverrà compiutamente solo a partire dal 1965 grazie all'album "Highway 61 Revisited", ma questo "Another side of Bob Dylan" può essere considerato, senza malizie, il primo vero passo verso il rock e verso la completa maturazione musicale. L'album si apre benissimo con la splendida "All I really want to do" e si conclude, altrettanto splendidamente, con la famosa "It ain't me babe". In mezzo, un mucchio di capolavori: "Chimes of freedom", "Motorpsycho Nitemare" e la curiosissima "To Ramona e Ballady in Plain D". Il suono è ancora un pò rozzo e superficiale, ma le musiche, vagamente futuriste, appaiono, da subito, efficaci e coraggiose. La Columbia, che produce Dylan sia dal primissimo album (per la cronaca "Bob Dylan", 1962) capisce che quel ragazzotto simpatico e apparentemente ingenuo è in realtà un geniaccio dalla creatività ai limiti dell'invidiabile. Naturalmente Dylan non è uno sprovveduto, sa fino a che punto può, e deve, osare.

L'introspezione e l'analisi interiore sono in realtà complicatissime metafore della situazione politica di quel periodo: Dylan non è un uomo orgoglioso, sicuro di sè, è, al contrario, fragile ed emotivo, timido e chiuso in sè stesso. Eppure, sembra volerci raccontare, questa chiusura caratteriale è dovuta al fatto che l'America è ormai un territorio franco di battaglie e compromessi, non è più l'America ingenua e sognante che canticchiavano, a mò di esorcismo, i Beach Boys. È un America dura, sofferente, crudele, selvaggia, altresì arretrata, e anche Dylan, nel proprio subconscio, è sofferente, crudele, duro, selvaggio, provinciale. L'altro lato di Bob Dylan dunque, come già ricordato in precedenza, è in realtà l'altro lato degli Stati Uniti d'America. In "Another side of Bob Dylan" il cantautore polacco-americano canta, per la prima volta, magnificamente. La voce nasale e gutturale è, una volta tanto, un punto di forza, e non una carenza musicale. Più che in "The times they are a changin", e più ancora che nella sfrontata "Blowin' in the wind", Dylan scandisce magnificamente tutti gli splendidi versi (da lui personalmente creati) in maniera tenera e agrodolce, flebile e potente. Dylan canterà benissimo, a onor del vero, anche in album quali "Highway 61 Revisited", "Blonde on blonde", "Desirè", mentre estrarrà dal proprio cappello il peggio del peggio in lavoracci quale, ad esempio, "Under the red sky" (1990).

Chi non possedesse, per svariati motivi, questo epocale "Another side of Bob Dylan" cerchi di procurarselo il prima possibile. Non si può amare Bob Dylan, specie quello rivoluzionario e rockeggiante di metà anni Sessanta, se non si conosce questo piccolo gioiello intimista e definitivo.

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