Il titolo è posticcio e bruttarello, non voluto da Dylan, ma è indovinato parzialmente. La canzone politica, regina dei primi due album autografi di Dylan, lascia spazio all’amore e all’intimismo. Solo "Chimes of Freedom", chilometrico e straordinario pezzo, riecheggia i temi di "The Times They Are A Changin’". Siamo nel sessantaquattro, fuori impazza la rivolta e Dylan dice: un attimo, non sono io quello che state cercando per cantare, io altre cose da dire e un mucchio di idee. Non sono Woody Guthrie, lasciatemi fare.

Così chi comprò "Another Side" restò spiazzato fino al quarto pezzo: ma dov’è la rabbia? Qua c’è dell’amore, del divertissement, ci sono tre pezzi superflui ("All I Really Want To Do", "Black Crow Blues", prima volta di Dylan al piano, "Spanish Harlem Incident", questa però ha un che di particolare che mi cattura ogni volta).
Poi arriva "Chimes of Freedom" e si pensa: Ok ci stava prendendo in giro, ecco il vecchio Bobby. Scivolano via un po’ di pezzi, tra cui la dolce "To Ramona", si gira il vinile, e basta, canzoni politiche esplicite non se ne trovano più, mai più fino a George Jackson del ’71. Sì, Dylan sa cantare anche di altro: di se stesso, ad esempio con un capolavoro assoluto quale "My Back Pages"; stupenda la versione elettrica del tour '78, dell’amore finito, "I Don’t Believe You" (adorabile), "Ballad In Plain D" (un guazzabuglio di accordi sbagliati ma strappacuore) e "It Ain’t Me Babe", una delle canzoni più suonate da Dylan in concerto, uno dei suoi pezzi da 90. Il tutto registrato in un'unica session di una notte, con una bottiglia di vino francese, dice la leggenda, e senza aver ripassato i giri di accordi. Così esce un gran disco affastellato e casuale: dylanesco, in una parola, alti e bassi, anzi, altissimi e bassi.

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