Chi è questo ragazzino e che ha da urlare tanto? Siamo nel sessantadue, prima di "Freewhellin’", e c’è un ventenne con un cappello da idiota e un sorriso sguanciottoso che strepita e urla e sputa nell’armonica sui pezzi della tradizione blues e folk.

Strimpella la chitarra, non è un virtuoso ma ci sa fare. La voce è un po’ rauca, tenta di imitare i classici, cioè Woody Guthrie. È la non voce del non canto di questo ragazzino: urla, va su e giù, si incazza e s’acquieta, poi si blocca venti secondi sulla U di "Freight Train Blues" e conclude con uuu-yuhu-u e lì fa ridere. Può non piacere, la voce, ma convoglia qualcosa.

Woody Guthrie è l’astro che illumina la prima uscita discografica di Zimmy, appena diventato Bob Dylan, un album omonimo, o forse senza titolo. Non imprescindibile, ma i primi vagiti del più grande di tutti i tempi si lasciano ascoltare. "Song to Woody" (parole Dylan musica Guthrie, che accoppiata!), "House Of The Rising Sun", "She’s No Good", "Baby, Let Me Follow You Down" sono piacevoli e anche il resto non è male. Peccato che solo "Song To Woody" e "Talkin’ NY" (mammamia quanto è spassosa questa) siano autografe. Un album di cover, di traditional, come esordio.

Allora forse non lo sapevano. Adesso abbiamo ben chiaro cosa avesse tanto da urlare, quel ragazzino col sorriso sguanciottoso.

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