I tempi stanno cambiando, o meglio, stanno peggiorando. Il giovane Dylan, dopo la buona prova offerta con "The Freewheelin' Bob Dylan", cambia poco e osa molto: musiche sempre molte semplici (gli accordi di chitarra sono sempre quei tre, l'armonica, per quanto micidiale, è statica e ripetitiva), testi feroci e controcorrente. Un modo per esprimere tutta la propria rabbia (e tutta la propria inquietudine) contro un mondo violento e palesemente inumano. Non è un album capolavoro, ma è forse il lavoro più politico, e in qualche modo più controverso, di un Bob Dylan massacrato dai dubbi, dalle speranze e dagli ideali forse traditi. Il gioco questa volta si fa duro: niente concessioni alla poesia o alla retorica, solo disgusto e rabbia.
Dylan è contro tutti e contro tutto. Non risparmia nessuno, attacca ferocemente politica e affari. Anche, e soprattutto, per questo l'album non piacque nè alla sinistra nè alla destra. Evidentemente, il pesante intervento americano in Vietnam aveva sconvolto la coscienza di Dylan e la coscienza di molti pacifisti come lui.
"The Times They Are A Changin" è un brano bellissimo, folgorante, ancora più cattivo e arcigno di "Blowin In The Wind", feroce e senza speranze. "Venite intorno gente, ovunque voi siate, le acque intorno a voi sono cresciute ed è meglio che cominciate a nuotare o affonderete come dei sassi perchè i temi stanno cambiando", questa la traduzione, un pò libera, dell'inizio del brano. Dylan se la prende col mondo, coi governanti, coi bacchettoni, coi padri e le madri che ascoltano "Love me tender" e disprezzano la cultura avanguardistica leggermente free di inizio anni Sessanta, coi critici, con gli scrittori, e persino coi cantanti. La rabbia è forte, quasi insostenibile: i tempi stanno cambiando, stanno cambiando sul serio.
Malgrado un paio di canzoni non proprio all'altezza ("North Country Blues" e "Boots Of Spanish Leather") l'album si inerpica attraverso sentieri e stradicciole che portano ad una estrema consapevolezza di sè. Dylan si conosce e sa fin dove può spingersi: sa che può permettersi di inveire contro i ricchi e la religione. "With God On Our Side" è validissima ancor oggi: le guerre in nome di Dio, spiega Bob, sono ingiuste e controproducenti (nonchè delle vere e proprie barbarie). In questo nostro mondo, fatto di sciiti e sunniti, Allah e Gesù Cristo, pagode e monasteri, un brano come questo può suscitare solo due reazioni: abbandono nella fede in Dylan; rifiuto di qualsiasi dogma musicale e rabbia nei confronti di un presunto artistucolo da quattro soldi. Io, personalmente, mi schiero con i primi.
Ma il 1964 (anno in cui il disco viene pubblicato) è anche l'anno in cui nasce, prima di morire trionfalmente, la protesta contro i neri, quelli cioè che non hanno diritti e sono considerati alla stregua di bestie da mandare al mattatoio. "Only a pawn in their game" è geniale, forse troppo emozionante, sicuramente magniloquente. E' un canto, un inno di dolore, una protesta, un modo per farsi sentire: l'armonica, come sempre, vola alta (e chi mancherebbe che non fosse così). Ma Dylan, in fondo, è solo un giovanotto di 23 anni, forse troppo maturo per la propria età anagrafica, sicuramente un mezzo genio. I tempi stanno cambiando, lo sa bene Bob che dopo questo album, evidentemente stufo di essere considerato un profeta o, peggio ancora, un politicante, decide di cambiare rotta e virare verso ritmi violenti, forti e rock. I fans più ottusi non capiranno questa storica svolta (e lo fischieranno sonoramente), ma sarà questa la chiave di volta che permetterà a Dylan di sperimentare nuove musicalità (e quindi nuove sonorità) senza dover per forza moraleggiare filosoficamente.
Dylan stava crescendo. I tempi stavano cambiando. Finalmente.
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