La presa in carico di questo ancor non recensito Greatest Hits del 1997 è buona scusa per un discorso più generale sulla formazione americana di hard rock melodico in esso celebrata, tuttora in attività malgrado la produzione discografica rarefatta a livelli controproducenti (sei dischi in trentotto anni!) e, ahimè, la sempre più involuta ispirazione, tanto che gli ultimi episodi di una certa qualità vanno fatti risalire ad ormai vent’anni fa, ossia al quarto album “Walk On”.

La percezione italica del genere musicale dei Boston ossia dell’AOR, intendendo con quest’acronimo quel tipo di rock tosto ma molto melodico, quasi completamente made in USA, possibilmente farcito di pompose tastiere e di cori rigogliosi nei ritornelli, inframezzato da ballatone per lo più dai chiari intenti afrodisiaci, scevro dal liberare gli strumenti solisti verso jam session e improvvisazioni piene, teso invece ad imbrigliarli verso brevi e ficcanti interventi sì da non annoiare la massa preponderante di ascoltatori superficiali e “pop” con troppe lungaggini… ebbene la percezione di questo genere dalle nostre parti è sempre stata fredda, istintivamente idiosincratica.

Siamo europei ed evidentemente quando l’America ci trasmette a tutta forza sue autoctone intuizioni musicali (negli anni ottanta l’AOR imperava decisamente al di là dell’Atlantico… suoi gruppazzi anche di modesto talento riuscivano a vender dischi a milionate), noi non ci entusiasmiamo. Cosa ben diversa rispetto a quando il mercato americano ha funto da cassa di risonanza per le eccellenze provenienti dalla Gran Bretagna (Beatles, Zeppelin, Pink Floyd, Queen, Ac-Dc e via dicendo): gli USA se ne innamoravano con generoso sentimento esterofilo e prontamente l’Europa tutta si accodava, mettendoli a sua volta sul piedistallo.

Coi Boston (e con Journey, Foreigner, Toto eccetera, per nominare la punta dell’iceberg AOR, più o meno) l’appassionato italiano medio delle vicende del rock da sempre storce il naso e liquida la faccenda quantomeno nel disinteresse, se non nella vera e propria esecrazione. Personalmente, verificato che anche in questo genere musicale, esattamente come in tutti gli altri, vi sono i fuoriclasse, i bravi, gli scarsi e gli insopportabili, mantengo tuttora eterna gratitudine e stima per le sue eccellenze, fra le quali rientrano senza dubbio i primi due dischi dei Boston, ovvero l’omonimo debutto del 1976 e la replica “Don’t Look Back” del 1978, opere non a caso dominanti questa raccolta, a ragione di nove estratti su quindici brani presenti in totale.

Il primo album dei Boston rappresenta a ben vedere l’autentico e compiuto primo esempio di AOR, genere considerato ottantiano per antonomasia tanto da avere come opera prima, nell’opinione più comune e generica, quell’”Escape” settimo album dei Journey datato 1981.C’era già tutto in quell’esordio col botto del ‘76, partorito inauditamente in un seminterrato di Boston, quello di casa Scholz dove il chitarrista, organista e compositore passava gran parte del suo tempo libero, una volta rincasato dal suo quotidiano lavoro come ingegnere alla Polaroid. Da esso vengono estratti per questa raccolta l’irrinunciabile “More Than A Feeling”, la piuttosto nota e quotata “Piece Of Mind”, la splendida “Long Time” anticipata dallo strumentale “Foreplay” (e con questi tre brani siamo alla riproposizione dell’intera prima facciata di quell’ellepì) e poi i due rock’n’roll “Smokin’” e “Rock’n’roll Band”. Per quelli che sono i miei gusti personali sono d’accordo all’80%, nel senso che avrei soprasseduto all’inserimento di “Peace Of Mind” per fare invece posto alla spettacolare “Hitch A Ride”, una delle mie preferite in assoluto, dotata di magico lavoro d’arpeggio sulla 12 corde e poi di un emozionante assolo incrociato fra le due soliste di Tom Scholz e Barry Goudreau.

Riguardo al secondo ed ugualmente eccellente lavoro “Don’t Look Back” gli estratti sono quattro e contemplano l’eponima canzone e poi l’incredibile power ballad “A Man I’ll Never Be“ oltre a “Feelin’ Satisfied” e “Party”. Niente da eccepire sulle prime due scelte, due tra le meglio di carriera, ma mi dolgo per l’assenza di “It’s Easy”, un numero di incredibile dinamica grazie al gioco delle acustiche a 12 corde, che si nascondono dietro le distorsioni delle elettriche e i colpi della ritmica per poi venire improvvisamente e spettacolarmente al proscenio nelle sincopi. Anche “Used To Bad News” è un episodio a mio parere superiore ad entrambe le prescelte sulla seconda facciata, se non altro per l’assolo breve ma ficcante dell’organo Hammond di Scholz.

Il terzo album “Third Stage” è rappresentato dalla celestiale ballata “Amanda”, eletto a secondo brano più celebre della formazione dopo l’assoluto evergreen “More Than A Feeling”, nonché da “Cool The Engines”… mmh, io gli preferisco la conclusiva “Holyann”, dotata di devastante assolone di Scholz oltre che di un pregevole arpeggio nell’arrangiamento. Al quarto album “Walk On” è infine (gli ultimi due, pessimi dischi sono usciti a valle di questo) dedicato l’unico estratto “Living For You”, altra ballata eccelsa, in effetti la cosa che si ricorda più volentieri di quell’opera.

L’album è poi arricchito da tre canzoni inedite, delle quali una proposta in due diverse produzioni: si intitola “Higher Power” ed è un non imperdibile episodio hard rock, con uno stoppato di chitarra particolarmente insistito e invadente. Assai meglio la ballata “Tell Me” messa in apertura, un discreto numero soft per l’argentina voce del povero Brad Delp, che però a quel punto della carriera aveva perso parecchio del suo smalto. L’ultimo inedito non è altro che l’inno americano, l’inconfondibile “Star Spangled Banner” affrontata a suo tempo anche da Jimi Hendrix, inno che tempo prima era stato richiesto ai Boston di eseguire in apertura a un incontro di football americano e finito in questo modo anche nel loro repertorio discografico.

I Boston sono stati un grandissimo gruppo, da tempo non valgono più nulla e quel poco che hanno il coraggio di pubblicare a scansione decennale pubblicano è veramente irriconoscibile e mediocre. Questo Greatest Hits si appoggia soprattutto sul passato remoto di carriera e pur con qualche riserva sulle scelte in scaletta deve essere considerato un vero vademecum su come concepire, arrangiare ed eseguire un certo tipo di rock estetizzante a mezzo di architetture impeccabili, suoni di chitarra enormi, bellissime voci, arrangiamenti ed esecuzioni rimasticate all’inverosimile e purtuttavia in grado di sopperire con altre qualità alla loro indubbia mancanza di istintività . E’ rock suonato “di testa”, con l’impulsività ben addomesticata… ma la buona musica non viene solo da rabbia o istinto, la passione artistica può veicolarsi efficacemente anche attraverso le vie della ricerca ragionata e della perfezione: Steely Dan, Pink Floyd e tanti altri, e i Boston con loro, insegnano.

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