Altra produzione "fatta in casa", sul modello del Jack Endino che già vi proposi, e altro album sostanzialmente passato sotto silenzio al momento della sua uscita (e anche dopo, se vogliamo). Parlo dell'esordio da solista di Brant (anno - di grazia - 1999), in cui l'ex-Kyuss (poi nei Fu Manchu) è intento ad arredare stanze sonore a metà tra la rarefatta desolazione di Palm Desert e dintorni e l'Acid-Punk più grezzo, feroce, minimale. Non la solita minestra riscaldata a base di Space e dello Stoner più scontato, né spassionato repertorio di "desertici" luoghi comuni, questo è un bel dischetto che ha un suo perché. Quale? Ve lo spegherò in breve, evitandovi gli sbadigli del caso.

Primo: per chi non lo sapesse (e non credo siano in molti), di "mestiere" B.B. fa il batterista. E non è così scontato che un batterista abbia la pazienza di mettersi in studio (Rancho de la Luna, Joshua Tree, per la cronaca) a registrare, uno ad uno, tutti gli strumenti oltre al suo: basso, chitarre, percussioni varie, persino tutte (non molte, per la verità) le parti cantate che fra le dune di "Jalamanta" è dato d'ascoltare; del resto, un disco del genere non lo ascoltate certo per trovarci chissà quali evoluzioni vocali... Tutta farina del suo sacco, vi dicevo, a parte un brano ("Toot", testo e voce di Mario Lalli dei Fatso Jetson) e a parte qualche - sporadico - intervento di chitarra di Gary Arce degli Yawning Man. Fa tutto da solo, e lo fa grandiosamente bene. Che gli volete dire...? Ascoltare per credere. Pare un gruppo vero, quello che si sente qui. Miracoli della post-sincronizzazione.

Secondo: il repertorio. Avanzi dell'era-Kyuss...? Forse. Pezzi per lo più di un solo accordo, dal quale raramente ci si schioda...? Vero. Ma le leggi del deserto sono queste, piacciano o meno. E no, non ripeterò il solito, banale aforisma "il deserto è uno stato dell'anima", del quale ormai avrete piene le tasche. Quello lo diamo per scontato, irrinunciabile premessa alla fruizione dell'opera. Semmai qui aggiungeremo dell'altro: che è la ripetitività, o per meglio dire la regolarità estrema di certe composizioni la chiave di lettura dell'album; che è un deserto maturo, quello di "Jalamanta", il deserto di chi l'ha percorso ormai centinaia di volte, del quale eppure rimarrà sempre, eternamente, qualcosa da dire. Brant lo dice creando musica per spaziare, sognare, divagare; per smarrire l'orientamento su immense distese a perdita d'occhio, su spazi sterminati - e virtualmente infiniti - di lande aride e pietrose, fra le dilatanze e i miraggi di autostrade al ritmo regolare di un interminabile viaggio. Anche questo vi suonerà retorico, forse perché qualcosa del genere l'avete letto a proposito dei Kraftwerk di "Autobahn"; perché sempre di "strada", si, parliamo, ma di ambienti molto diversi. Né servirebbe spiegarne il perché, se non che siamo sull'asfalto rovente di una California estiva, e non in Renania o in Baviera.

Terzo: l'impatto sonoro. E in simili scenari di monotonalità estrema, non è propriamente un fattore di secondaria importanza. Quanto ci sento i Sabbath di "Master Of Reality", qua dentro, non lo potete immaginare, se non dopo un ascolto almeno; e quante chitarre "iommiane", quanta psichedelia, quante suggestioni cosmico-esotiche alla Flower Travellin' Band. I pezzi più lenti avvolgono come fra le spire di giganteschi "rettili" sonori (ascoltare i ritmi sciamanici di "Cobra Jab"; ma dove le ha imparate, 'sto qua, quelle scale arabeggianti, se fino all'altro ieri sedeva dietro timpani e rullante...?); ammaliano trascinando in estasi (prendete "Let's Get Chinese Eyes": intro di batteria che più "jazzy" non si può e squarci di meraviglia chitarristica da fare invidia ai Mad River di "Eastern Light"); penetrano a fondo l'essenza di un Blues lontano, ma proprio tanto, dagli stilemi del genere (in "Automatic Fantastic" si ascolta un Clapton a 40 gradi all'ombra). Distorsione, corrosione, sfogo: e nello sfogo è il senso degli episodi più rabbiosi, quelli che stordiscono, quelli che somigliano a jam della potenziale durata di una o due ore. Ma a questo proposito i titoli risparmieranno parecchio lavoro a me-recensore: che altro vi devo dire di una "Low Desert Punk"...? Vi basta leggere per capire, prima ancora d'ascoltare...

A TRIP THROUGH THE SOULFUL SIDE OF THINGS: questo recitano le note di copertina, e mi pare una frase altrettanto eloquente. Mi scordo qualcosa...? Ah si, che il disco è stato ristampato tre volte dalla Duna Records, l'etichetta personale di Brant. Insomma: il padrone di casa se l'è cantata e se l'è suonata, in tutti i sensi.

A voi.

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