Non so chi le abbia mai viste, le stelle buone.

Di sicuro non Brett, nato, vissuto e pure morto sempre sotto l’influsso di stelle cattive; che sono quelle che ti regalano solo luccichii ma l’oro lo mantengono sempre fuori dalla tua portata.

Sempre che la notorietà che arriva quando hai dieci anni e ritrovarti a diciannove con duecentomila dollari per le mani, nella terra delle opportunità e nell’anno domini 1974, possano essere considerati illusori luccichii.

Magari non è solo questione di stelle cattive, ma forse anche di volerle scansare; e potrebbe pure essere che Brett non è che avesse gran che voglia di fuggire quegli influssi un po’ maligni e un po’ beffardi.

Sia come sia, Brett nasce il 25 settembre 1955 e il suo oroscopo certifica senza possibilità di smentita che chi nasce in questo giorno è ricco di speranze e buoni propositi, si fida del prossimo e ama condividere con amici e persone care le proprie felicità e la propria pace interiore, rendendo l’atmosfera intorno a sé sempre rilassata e spensierata.

Ora è certo che nel cielo di Brett quel giorno rifulgono tante di quelle stelle cattive capaci di sovrastare i buoni auspici.

Per la cronaca, Brett nasce Brett Smiley e questo è il suo nome, anche se sa di nome d’arte da lontano un chilometro.

Per chi bazzica il mondo dello spettacolo, un nome del genere sarebbe come manna piovuta dal cielo, con quello “smiley” che ti immagini un sorriso a trentadue denti sfoggiato incamminandosi per una strada lastricata di ottime intenzioni che porta dritta dritta nelle fauci del successo.

E infatti è così che inizia la vicenda umana di Brett, che, a otto anni si ritrova protagonista del musical «Oliver!» diretto da tale Lionel Bart e liberamente ispirato alle romanzate vicende di Oliver Twist.

A proposito di tizi che nascono sotto stelle cattive.

Però almeno a Oliver il lieto fine viene concesso.

A Brett no, così che, dopo il debutto in pompa magna, ogni tentativo di trovare fortuna calpestando le assi di un palcoscenico oppure bucando il piccolo e il grande schermo si risolve immancabilmente in un «Grazie, le faremo sapere».

Come quello che si sente rivolgere al provino per sostituire l'idolo delle adolescenti David Cassidy nella serie televisiva «La famiglia Partridge», il primo «Grazie, le faremo sapere» di una serie lunga più una telenovella; e allora il ruolo del protagonista in «Cinderella» – quello che oggi si etichetta come un porno soft e che nei plumbei Settanta italioti vedeva corrispettive protagoniste professoresse, liceali e corpi studenteschi al gran completo – e il fuggevole cameo in «American Gigolò» hanno il sapore della beffa, il successo a portata di mano e irraggiungibile, un po' come quei cartelli dove ci sta scritto «Guardare ma non toccare».

Perché come può andare a finire se Brett ha una particina-ina-ina-ina al cospetto di un Richard Gere vestito Armani che è uno schianto come mai lo fu né mai lo sarà nel corso della sua luminosa carriera?

C'è sempre un Richard Gere vestito Armani nella vita di Brett; anche quando, prima di «Cinderella» e di «American Gigolò», piazza il suo bel viso davanti a un microfono anziché una telecamera.

È allora che Richard Gere assume le sembianze di David Bowie.

È allora che le stelle che guardano nascere Brett si dimostrano non propriamente cattive, piuttosto maligne e beffarde, nonostante la vicenda inizi sotto i migliori auspici, anzi forse proprio per questo.

E comunque, il caso vuole che nel 1971 Brett incontri Andrew Loog Oldham, il manager e produttore dei Rolling Stones, e che questi scorga qualcosa in Brett; su cosa ci faccia Brett in un covo di spacciatori cocainomani, conviene stendere un velo, ma sono queste le circostanze in cui Andrew si imbatte in Brett.

È la stagione degli ultimi, grandi lavori degli Stones, quell'anno «Sticky Fingers», il successivo «Exile on Main St.»; ma quella stagione, gli Stones e quei due album sono già passato.

Londra acclama David Robert Jones in arte Bowie, il maggiore Tom, Ziggy Stardust e la sua combriccola di ragni piovuti da Marte, insomma la next big thing.

Va così che Andrew s'invola alla volta di New York alla ricerca di un nuovo volto da contrapporre a David, trovando Brett.

Che per le strade di New York, in quella stagione, facciano la loro comparsa pure cinque disadattati sulla cui apparenza conviene stendere un altro velo, è faccenda che ha un peso specifico nel prosieguo.

Comunque sia, quando Andrew decide che per lui è tempo di tornare a casa, convince Brett a volare pure lui a Londra, con la promessa di riversare nelle sue tasche tante di quelle banconote da non entrare neppure nelle valige che i due si trascinano dietro fino all'aeroporto; dove incrociano David, appena sbarcato da Londra.

Comunque sia, Andrew quella promessa la mantiene e dopo pochi mesi Brett si ritrova tra le mani duecentomila dollari, un singolo, un album di prossima pubblicazione, i muri di Londra tappezzati dal suo viso, che poi è quello del ragazzo più affascinante al mondo, altro che l'idolo delle adolescenti David Cassidy, le presenze nei salotti televisivi che contano.

E però a rivederli oggi, quei salotti televisivi, il senno di poi dice che la next big thing è qualcun altro e pure qualcos'altro.

Ma il senno di poi è storia di oggi, mentre nel 1974 Brett ha fuori il singolo targato Anchor «Va Va Va Voom b/w Space Ace» ed una squadra di prim'ordine al fianco: Andrew in cabina di regia; l'ex Small Faces Steve Marriott; e poi Kenneth Ascher, David Spinozza e Jim Keltner, che all'epoca sono i più fidati compagni di strada di John Lennon.

Quello che ne viene fuori è un ibrido eccitante, generato dall'incrocio del glam rock di matrice inglese – tradotto, dosi massice di David Bowie e Marc Bolan, e perfino una lieve sensazione di Elton John – con la stracciona attitudine da rock'n'roll stradaiolo dei New York Dolls.

E pure le fattezze di Brett rispecchiano fedelmente quell'immaginario, tra una Bambola pescata a caso e Wayne/Jayne County, come tanti che bazzicano il Max's Kansas City in quei giorni frenetici.

Ma Londra non è New York e il singolo di Brett vende meno di niente.

Il master dell'album che sarebbe dovuto andargli dietro finisce a prendere polvere in uno scatolone riposto alla meno peggio nel sottoscala dell'edificio che ospita la Anchor.

Andrew assume la responsabilità di riporre quel master, seguendo giorno dopo giorno lo sconsolante andamento delle vendite del singolo, quella che si dice una strategia di marketing.

Qui si separano le strade di Brett e di Andrew.

Qui esce di scena Brett, salvo una fugace apparizione quarantadue anni dopo.

Quarantadue anni, trascorsi a decimare duecentomila dollari, bevendo «... solo Asti Cinzano, perché costava poco, accompagnandolo a cocaina ...».

Nel 2005, Nina Antonia, giornalista avvezza a biografie ad alto contenuto emozionale – «In Cold Blood», la biografia ufficiale di Johnny Thunders, per citarne una – pubblica «The Prettiest Star», questionando nel sottotitolo su che fine abbia fatto Brett: quel libro suscita interesse e riscuote un discreto successo.

Qualcuno tra i più avveduti legge tra le righe che, nel 2003, la RPM – sussidiaria della Cherry Red Records – ha acquisito i diritti su quel master riposto in uno scatolone ventinove anni prima e saltato fuori chissà come, dando alle stampe «Breathlessly Brett», figliuol prodigo in forma di album.

Che si ammazzi il vitello grasso.

Nel caso di Brett, però, il vitello grasso continua a dormire sonni tranquilli.

Ed è un peccato, metaforicamente parlando, perché «Breathlessly Brett» è un album che avrebbe meritato il suo spazio sugli scaffali al fianco di «Diamond Dogs», almeno idealmente se non fisicamente, pieno zeppo di influenze ereditate dal passato remoto e prossimo e di lasciti per il futuro, dove gli immancabili Bowie e Bolan, gli Stones e i Beatles, per non dire del Lennon solista, i Monkees e le Supremes, vanno a braccetto con gli Hanoi Rocks e i Supergrass, i Flaming Lips e i Kula Shaker, i Verve e i Pulp.

Alla fine, anche Brett torna a far capolino, l'8 gennaio 2016, il giorno del sessantanovesimo compleanno di David Bowie: Brett muore, stroncato dall'AIDS e da una vita vissuta ai margini del lato sbagliato della strada.

Si ricordano di lui Nina e alla RPM e, nel loro piccolo, ne danno notizia.

Il giorno dopo, quella notizia la nota qualche redattore avveduto e scrive un breve coccodrillo da pubblicare l'indomani, il 10 gennaio 2016.

Il giorno della morte di David Bowie.

Il coccodrillo per Brett Smiley non uscirà mai.

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