Quante volte nei tediosi pomeriggi di sporadici fine settimana, ci è capitato di ingombrare i centri commerciali e di buttare l’occhio nei cassoni dei compact disc, gettati al loro interno come cozze in un secchio dopo essere state strappate al loro angolo di scoglio. Chi conosce a memoria le discografie degli artisti che venera e punta all'impresa del collezionismo più sfrenato, se ne sbatte rigorosamente dei concorrenziali importi da superextraipermegagalatticaofferta che solitamente ingolosiscono il popolino più propenso all'acqisizione o all'acquisto del "vincere facile".

Ed ecco che alla loro visione spuntano come mnemoniche pagine di diario i vari: “I grandi successi di…“ “Il meglio di…“ “The best of…“ scritte con caratteri dorati e scintillanti o peggio ancora raccolte subdole e tarocche che sottraggono con sufficienza ed arroganza, nientemeno che il titolo da album ufficiali di artisti ormai gettati tristemente nel dimenticatoio, ma che in determinate stagioni hanno segnato delle pagine importanti per la missione cui sono stati interpellati. Ecco, io queste raggranellature non-sense le lascio al popolino e mi batto per una giusta causa: possedere globalmente ciò che ha generato le antologie-bluff eccessivamente fattibili e affriste. Io esigo l'originalità e la base di partenza e ritengo pure che il caso di Bruno Lauzi non è da meno per quando riguarda la triste legge del dimenticatoio e l'ingiusta relegatura a ciccia scadente da supermarket.

Il cantautore di adozione genovese, ma nato su suolo eritreo, negli ultimi scampoli del 1971 da alle stampe un doppio LP che riecheggia quella che è stata senza ombra di dubbio la sua perla più celebre. Partiamo però dal 1969, quando l’ambizioso Giulio Rapetti (in arte Mogol), fondò l’etichetta “Numero uno” e accolse in poco tempo sotto la sua ala protettrice, svariati artisti e musicisti emergenti di quegli anni tra i quali lo stesso Lauzi, Lucio Battisti, Oscar Prudente, Ivan Graziani, la Premiata Forneria Marconi, La Formula 3, Edoardo Bennato e i Flora Fauna Cemento capitanati da Mario Lavezzi. Per quale motivo risulta fondamentale menzionare il progetto “Numero uno”? Perché l’ascendente casa discografica all’inizio degli anni settanta, ritrovandosi notevolmente fornita di eccellenti e professionali personaggi della nuova scena musicale italiana, lavorò affinché questo autorevole, interessante e inusitato lavoro di Bruno Lauzi acquisì successo e consacrazione. Inusitato perché non v’è traccia di stampa ne su compact-disc e neppure sulle snobbate musicassette in voga negli anni ottanta e novanta. Disco esclusivo di scarsa reperibilità, come (ahimè) altri gioielli d‘autore pubblicati da Lauzi nel decennio in questione, mai ristampato neppure su long-plein negli anni successivi ed acquisibile solo nella sua prima e unica edizione datata 12/71 (dicembre 1971).

Il prodotto come ho avuto modo di accennare in precedenza è un doppio, ma la prima sezione si smarca in toto dalla seconda.

Nella prima parte Lauzi interpreta dal vivo con chitarra e voce, affiancato dal chitarrista Andrea Sacchi, alcuni pezzi del decennio precedente tra i quali, la celebre “Ritornerai”, brani del repertorio genovese e country-folk statunitense, come “O frigiderio” e “When i meet Connie in Cornfield”, dando sfogo con una certa teatralità alla propria vena di intrattenitore e di interlocutore con i presenti del pubblico. L’umiltà di Lauzi è sempre stata contraddistinta proprio dal rapporto quasi fraterno con chi lo stava ad ascoltare senza mai vantare qualità innate o esaltare il suo ruolo di piccolo giullare alla corte del popolo.

Molti dei talentuosi artigiani di suoni citati poc’anzi, diedero invece il loro contributo alla riuscita della seconda parte del disco. Pezzi di P.F.M., di Flora Fauna Cemento e di Equipe 84 insieme a Dario Baldan Bembo, ai fratelli La Bionda e al percussionista Gianni Dall’Aglio, pennellarono delle loro variegate tinte la tela con passione e disciplina. Tra i brani di avvolgente armonia e di notevole qualità, accompagnati dal pacato e melodico timbro vocale del cantautore ligure, figurano “L’aquila” della collaudata coppia Battisti-Mogol e “Lei non è qui non è là” scritta a quattro mani con un giovanissimo Edoardo Bennato. Sul finire del 1972 Lucio Battisti pubblicherà il 33 giri “Il mio canto libero” nel quale includerà “L’aquila” offrendo una nuova interpretazione; Bennato con il suo pezzo effettuerà la stessa operazione nel 1973 nell’album d’esordio “Non farti cadere le braccia”. Le altre tracce rimangono nel classico stile romanzista di Lauzi che non subisce particolari metamorfosi; come un mastro tesse una trama non eccessivamente impegnata, ma certamente più coraggiosa, propositiva e colorata rispetto ai lavori (comunque ottimi) pubblicati in precedenza.

Il raziocinio vorrebbe che a questo disco assegni quattro pallini di voto, ma il cuore mi ha imposto un voto massimo, in memoria di un simpatico, semplice e meritevole cantastorie di provincia, uno dei tanti, scomparso esattamente sei anni fa (correva il 24 ottobre 2006), troppo in fretta annebbiato, poi trascurato e scordato dall’imperante gioco al massacro dettato dai mediocri e sfrenati giganti di burro che impongono trippe rancide e incolore.

DISCO UNO - DAL RECITAL AL TEATRO FILODRAMMATICO DI MILANO

Lato A: Menica, menica - Vecchio paese - La banda - Gli acrobati - La mia solitudine

Lato B: O frigideiro - Il tuo amore - Ritornerai - When I meet Connie in Cornfield - Coccodì coccodà

DISCO DUE - AMORE CARO AMORE BELLO...

Lato A: Amore caro amore bello - Al mercato dei fiori - 4.000.000 di anni fa - Lei non è qui, non è là - Il costruttore - Giovedì speciale

Lato B: L’aquila - Un buon matrimonio - Il coniglio rosa - Stella, Stella - Devo assolutamente sapere - Il tuo amore

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