Introduzione:

Scrive Bryan Adams nelle note interne di quest’album del 2014: “Forse vi chiederete chi sia mai questo tizio in copertina, che pare essere appena ruzzolato fuori dal tour bus di facchini e tecnici dei Deep Purple, ma vi giuro che sono io e che tutti quei capelli son miei… Ho più o meno sedici anni e sono a casa mia, a Vancouver in Canada… Amavo profondamente la musica con delle belle chitarrone e a quel tempo gente come Led Zeppelin e Deep Purple passavano continuamente in radio, così l’hard rock mi prese e ne rimasi agganciato. Erano tempi fantastici per la chitarra: Blackmore, Page, Clapton, Ronson, Townshend… Al tempo ci davo dentro a far pratica in casa coi pezzi dei Bad Company, nonché a spassarmela con Alice Cooper, Who, Janis Joplin… anche Stevie Wonder che poi fu il primo che vidi in concerto, a Vancouver nel ’75...

Contesto:

Molto bene, e allora perché in un’opera a cui questo rocker dà il titolo “I brani dei miei anni (giovanili)” vengono affastellate ben sedici cover di bella gente come Bob Dylan, Beatles, Chuck Berry, Miracles, Beach Boys, Creedence, Eddie Cochran, Kris Kristofferson, Jimmy Cliff, Willie Dixon, Don Gibson eccetera, ossia sbobba preminentemente anni sessanta cioè quando Adams, nato nel ’59, era bambinetto?

La ragione si appalesa lapalissiana, e antipatica: Bryan si è messo nelle mani del produttore (a sua volta canadese) David Foster, musicista abile e preparato ma tutt’altro che rocchettaro e soprattutto terribile manipolatore del talento altrui.

Già responsabile ad esempio, più di trent’anni fa, dello sputtanamento a vita dei Chicago, passati con lui da gruppo sfaccettato e sorprendente con i suoi tre cantanti e quattro compositori, a orchestra d’accompagnamento del loro bassista Peter Cetera, adulato e convinto dal produttore a cantare le composizioni di questi, mentre che venivano mobbizzati gli altri, tacitata la sezione fiati che non garbava a Foster, convinti tutti che tale rivoluzione convenisse a ognuno di loro perché colle canzonette poppish interpretate da Cetera si sarebbero vendute montagne di dischi, con relativa e generale impennata dei conti bancari.

Punti di forza e lacune:

Il tanto amato hard rock brilla quindi per la sua totale mancanza in questa farlocca celebrazione di gioventù. E Bryan lo confessa candidamente nelle summenzionate note di copertina, dichiarando che alcuni di questi brani manco li aveva presenti e glieli ha fatti cantare il figuro al suo fianco in questa avventura. E allora fanculo, Bryan!

I punti di forza, non sufficienti a rendere accettabile questo lavoro, sono la prevedibile qualità della voce di Adams e dell’esecuzione strumentale sua e dei suoi accompagnatori. Beninteso, tenuti tutti al guinzaglio dal canzonettaro Foster… Assoli di chitarra da quattro battute in tutto, nessun esperimento o quasi. Tre o quattro cover sono ben riuscite ed emozionano e qua sotto passo a segnalarle, ma il resto è pappa per anzianotti rincoglioniti. Un vecchio difetto di Bryan, quello di lasciarsi andare al pop “adulto” e paraculo invece di coltivare la sua anima di rocker (verificabile ad ogni concerto, parola mia) qui è alla sua massima estrinsecazione.

Vertici dell’album:

La voce leggermente roca e inconfondibile di Adams irrompe dalle casse e fa partire al meglio questo disco facendo sua “Any Time at All”, ben nota canzone di Lennon dei tempi di “Hard Day’s Night”, 1963. L’esecuzione pulita e nitida fa risaltare in particolare il sorprendente, meraviglioso quarto accordo della strofa (credo un Si bemolle con la nona), fulcro di tutto il pezzo insieme all’esplosivo refrain, non per niente messo a cappella come incipit. Pollice su, che ci vuoi fare… i Beatles sono talmente musicali che rieseguirli è quasi sempre un successo.

Lay Lady Lay” è la mia canzone preferita di Bob Dylan, figuriamoci. Impossibile rovinarla, col suo ondeggiare squisito e il suo testo semplice e meraviglioso. Ma c’è un però: Adams sceglie di interpretare la strofa, molto bassa di tonalità, un’ottava sopra. Così quando arriva il ritornello, cantato questo nella stessa tonalità di Dylan, la faccenda si affossa un po’, peccato. Io avrei spostato tutto una tonalità o due più in alto, così da rispettare la salita di tono nel ritornello. Canzone stupenda, sempre e comunque.

C’mon Everybody” è del ’58 (Eddie Cochran), e per una volta si sente effettivamente dove ha anche pescato Bryan per affermarsi coi suoi rock’n’roll più semplici ed epidermici. Chitarra finalmente grattugiante, voce urlata e convincente; si intuisce che il nostro è “centrato” su questo pezzo, ma purtroppo è un’eccezione.

Niente da eccepire anche su “Many Rivers to Cross”, ennesima ballata pur essendo di un’artista reggae (Jimmy Cliff), però intensa e melodicamente notevole.

Il resto:

La seconda traccia “She Knows Me” è una classica sua collaborazione coll’amico e partner compositivo Jim Vallance. Senza infamia e senza lode, tesa e cortesemente ritmata come decine di altre cose disseminate nella sua discografia. Però sorge spontanea la domanda: a che scopo? Come mai due composizioni originali, due, in mezzo a un mare di cover? E neanche messe in fondo, o come bonus… no, questa arriva addirittura per seconda! Che tipo di urgenza aveva questo brano per essere destinato, insieme ad un altro, di scorta ad altri sedici (16) non originali e legati insieme da un presunto amarcord? Boh.

I Can’t Stop Loving You” è una celeberrima canzone country del 1957 (con Adams, allora, manco concepito...) virata cinque anni dopo a rhythm & blues dal grande Ray Charles. Negli anni successivi ci si sono applicati anche Frank Sinatra, Jerry Lee Lewis… e pure in Italia abbiamo avuto la nostra versione, grazie a certo John Foster pseudonimo di Paolo Occhipinti; titolo italiano “Non finirò d’amarti”. Come dire che Adams qui non ha proprio speranza di distinguersi nel gruppo compatto dei predecessori. Scelta fra le più infelici del rovinoso Foster.

Kiss and Say Goodbye” la fecero uscire i Manhattans nel 1976 e scommetto che Bryan al tempo manco si accorse della sua esistenza. E’ un lento rhythm and blues uguale a mille altri, soprassedibile.

Rock’n’Roll Music” è quello che è, un rock’n’roll purissimo e strettamente legato al genere. Coverizzato anche dai Beatles, a suo tempo. A me il rock’n’roll puro annoia, anche se è di Chuck Berry, che posso aggiungere... ah sì: meno male che, dai Beatles e gli Stones e gli Who in poi, è stato ben contaminato e imbastardito!

Senza speranza il rifacimento di “Down on the Corner” dei Creedence. La voce pur grintosa e roca di Bryan nulla può rispetto all’emissione detonante, sonorissima, stupenda di John Fogerty nell’originale. Non c’è gara.

Never My Love”, che risale agli Association ed al 1967, è dignitosamente soporifera.

La ben nota “Sunny” è certamente un colosso soul jazz dallo sviluppo melodico inappuntabile. Non la mia tazza di tè, ma soprattutto chissenefrega di sentirla cantata da Bryan Adams.

The Tracks of My Years” ha ispirato (a Foster, sicuro) il titolo dell’album ed è anch’essa pietanza dei pieni anni sessanta, cucinata da qualche bravo soul singer di colore, mi pare Smokey Robinson. Mi spiace, il mio amore per la musica non si spinge a quegli anni ruggenti che vivo come formativi, importanti e decisivi, ma l’emozione mi interviene per quello che è successo dopo, a partire dal 1966 diciamo da Rubber Soul.

Massimo scandalo di questo disco è il massacro di “God Only Knows” dei Beach Boys. Stiamo parlando di una delle massime canzoni degli anni sessanta, forse la migliore in assoluto. Quel disgraziato di Foster si mette al pianoforte (su cui ha un invidiabile tocco, beninteso) e la rende lentissima ed indistinta, intanto che Adams la intona veramente da pesce fuor d’acqua. Un abominio, se si pensa allo stupendo intercalare del piano ribattuto, al famosissimo e irripetibile, geniale muoversi del giro di basso, all’arrangiamento psichedelico sognante, all’irrompere strano ma vero dell’intermezzo strumentale, ai sognanti contro cori finali. Per carità! Giù le mani da questo capolavoro! Il pianetto corretto ed inutile di Foster prende gli accordi sublimi del brano appiattendoli senza pietà in una melassa Debussyana, diciamo così (scusami Debussy, tu non hai colpe). Irritante.

You’ve Been a Friend of Me” è il secondo originale di Adams, un rocchetto semiacustico che galoppa decentemente per un po’, senza lasciare ricordi.

Help Me Make It Through the Night” è una ballatina country di Kris Kristofferson, telefonatissima, di quelle che sai sempre dove andrà la voce nei cinque secondi successivi. Uguale a milioni di altre americanate. Adams sfoggia la sua più odiosa rochezza mielosa a ‘là “(Everything I Do) I Do It for You

You Shook Me” si può dire essere il punto d’incontro fra i due mondi musicali, quello di Foster e quello di Adams. Questa invocazione blues del mai abbastanza apprezzato Willie Dixon è del 1962 ma tutti la conoscono per la potentissima reinterpretazione resa dai Led Zeppelin nel loro primo album di inizio 1969. Il povero Adams ce la mette tutta, ma piscia fuori dal vaso quando pretende di emettere urla belluine cercando di correre dietro al ventenne Robert Plant di quel tempo… ma per favore! Il confronto è impietoso e imbarazzante.

Giudizio finale:

Ribadisco: gli anni giovanili celebrati in questo disco sono quelli di Foster (classe 1949, dieci anni più di Adams), con il rocker di Vancouver semplice veicolo d’interpretazione per il suo produttore, ben lontano da un accorato rivangare dei suoi effettivi anni ruggenti, i quali prevedevano sicuramente ben altra minestra rispetto a questa.

Abbiamo capito qui che Foster si è formato con il soul/jazz/r’&r’ degli anni cinquanta e sessanta. Beh, poteva farsi un disco a nome suo, chiamarlo esattamente com’è intitolato questo, venderne quattro copie in croce e togliersi comunque la soddisfazione. Invece ha plagiato il connazionale Adams, molto più noto alle masse e redditizio al botteghino.

E allora di nuovo vaffanculo a tutti e due, per quanto mi riguarda. Adams è figlio degli anni settanta, del rock blues e del pop rock: nulla di ciò è presente in questo lavoro ad eccezione di “You Shook Me” di zeppeliniana gloria. Sarebbe stato divertente sentire Bryan alle prese con, che so, “Black Night” oppure “School’s Out” o persino “All Right Now”.

Questo pateracchio noiosetto meriterebbe un votaccio assoluto, come sentenza al vigliacco atto di tradimento del buon rock, ma sono riconoscente a Bryan per tante sue canzoni e allora piazzo solamente un’insufficienza. Piena.

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