La prendo larga.

Parto dallo studio in penombra di Annozero di qualche puntata fa, insolito scenario per un dibattimento che vedeva al suo centro l'agitarsi di un Morgan appena estromesso dalla competizione sanremese per delle dichiarazioni oramai tristemente note. Fra le dense nebbie di un tam tam mediatico costruito probabilmente per accrescere la popolarità del cantante, più sul piccolo schermo, in verità, che nello stereo di qualche ascoltatore di buon senso, mi ha colpito una frase, che a torto o a ragione, mi ha fatto scorgere un'ombra di verità (ed anche di angosciosa fragilità) nelle parole del paraculante musicista nostrano: vabbene, ho fatto una cazzata, ma adesso lasciatemi fare il mio lavoro! lasciatemi svolgere il mio mestiere!

Datemi del pazzo, ma nei solchi del volto ebete e barbuto del Burzum targato 2010, ritratto a più riprese in pose mestamente forestali sul suo sbrilluccicante nuovo sito, ho intravisto la stessa angosciosa fragilità: dopo 17 anni di clausura carceraria, anche il Vikernes sembra volere, più di ogni altra cosa, appropriarsi nuovamente del suo status di musicista, e, più in particolare, dello status di musicista black metal, la veste che sicuramente ha meglio calzato nel corso dei quasi due decenni di esposizione mediatica.

17 anni son tanti, e quasi ci vien da riflettere sul senso del trascorrere del tempo. Quante cose possono succedere, quante ne sono successe in 17 anni! Noi non siamo più gli stessi, il mondo non è più lo stesso. Recluso nelle sue quattro mura (che all'epoca amava baldanzosamente chiamare “hotel”), il Vikernes ha condotto una vita congelata, in sospensione, fuori dal tempo; dopo 17 anni torna a vivere, un bambino con le sembianze di un vecchio decrepito: impossibile paragonarlo a quell'impacciato adolescente che ancora possiamo immaginarci intento a lisciarsi i capelli, mal celando un evidente disagio, dietro ai banchi del processo per l'uccisione di Euronymous. Parto da qui per parlare di “Belus”, inaspettato ritorno discografico targato 2010, appena qualche mese dopo la rimessa in libertà; parto accarezzando la scia di questi lunghi 17 anni, nel corso dei quali una certa concezione del black-metal si è sviluppata, ha raggiunto il suo apice, si è poi sgonfiata, per poi morire.

Dalle ceneri dei lavori di Burzum, fra gli antesignani della folgorante scuola norvegese degli anni novanta, si è poi inaspettatamente sviluppato un filone a sé all'interno del black metal, poi racchiuso nella definizione “depressive”, soprattutto a firma di seguaci statunitensi che in certi frangenti hanno saputo riprendere ed articolare le lezioni della seminale one-man band norvegese, mantenendo viva la fiammella artistica del Nostro, soprattutto laddove le sue composizioni peccavano di una sorta di minimale ridondanza (che, beninteso, lo ha reso grande, unico ed avanti anni luce rispetto ai suoi pur rispettabili colleghi dell'epoca).

“Belus” non è né meglio né peggio di quanto è stato partorito dal mondo dopo l'uscita di “Filosofem”. “Belus” è semplicemente Burzum, e questa affermazione dovrebbe bastare per azzittire tutti i black paladini dell'estremo degli anni zero. Ma “Belus” non è nemmeno meglio né peggio dei lavori degli anni novanta di Burzum stesso: chi ha seguito con attenzione l'affascinante parabola artistica burzumiana, si sarà certamente reso conto che i vari lavori pubblicati, pur nelle loro diversità, si equivalgono, tanto che è tutt'oggi difficile affermare con certezza quale sia da eleggere come "Il Capolavoro" della sua discografia. Certo, ognuno di noi avrà le sue preferenze, ma difficilmente troveremo una visione comune, e questo perché, ciascuno dei quattro album (non considero le cagate sfornate in carcere) perde ed al contempo guadagna qualcosa rispetto al diretto predecessore.

“Belus”, al pari degli altri, è un capolavoro: un capolavoro che aggiunge e toglie qualcosa a tomi che l'hanno preceduto. Cosa toglie “Belus”? “Belus” ci restituisce un Burzum più canonicamente black, privo di quella spinta avanguardista, oltranzista che aveva caratterizzato i primi lavori (del resto, un tempo si faceva la Storia, oggi si è la Storia!). Spiace inoltre constatare come la voce, abbandonate le tonalità altissime che la contraddistinguevano fra mille altre, si assesti oggi su uno screaming più impersonale, seppure riconoscibile. Ma si torna al discorso di prima: al di là che anche le corde vocali invecchiano, come paragonare un ragazzino nella sua post-pubertà ad un uomo oramai fatto? Se ci si pensa bene, è legittimo che nella sua vecchiaia il Conte si sia riavvicinato alle origini, alle tradizioni; lo hanno fatto in molti, e fra i più duri anche, basti pensare al Michael Gira che retrocede, dopo anni di fosca militanza industriale, al folk-cantautoriale degli Angels of Light. Per il Vikernes le origini sono il black metal classico, quello che lui stesso ha contribuito a creare quasi venti anni prima. Poche le influenze in effetti rinvenibili (Celtic Frost? Hellhammer? Bathory?) fra i solchi di questi 7 brani (+ intro), tanto che sembra che l'arte di Burzum si modelli, si comprima e si slabbri riciclando autisticamente la medesima materia di sempre.

Cosa aggiunge “Belus”? “Belus” anzitutto porta con sé un concept lirico (e musicale) finalmente consapevole, emergendo nel complesso come l'album più ragionato, studiato, meglio concepito della carriera dell'artista norvegese; l'album che riesce a mettere insieme il più alto numero di idee e soluzioni in un corpo organico e coerente. L'album, cantato interamente in lingua madre, affonda gli artigli nella mitologia nordica e ci parla del viaggio nel mondo delle tenebre del dio pagano Belus, chiamato, dopo la morte, alla definitiva resurrezione. E come non vedere in tutto ciò la metafora di quella che è la tormentata biografia del Nostro, che riscopre la luce del sole dopo quasi due decenni di prigionia? E si torna al medesimo discorso: 17 anni sono tanti, e in “Belus” sembrano prender forma le idee di 17 anni di impossibilità espressiva: in esso troviamo un'urgenza comunicativa che non sempre si è saputo tenere a bada, ma che trova un equilibrio organico mai raggiunto in passato. Da ciò se ne deduce che Vikernes è in definitiva un artista del cazzo, poiché in 17 anni di idee ne ha concepite e maturate ben poche! Oppure che stiamo parlando di un grande artista per davvero, la cui inossidabile identità riesce a prevalere sullo stratificarsi esistenziale di un così lungo lasso di tempo.

Anzitutto torna la chitarra elettrica, maneggiata con una certa scioltezza (scioltezza forse dovuta al monte di seghe che hanno mantenuti ben fluidi i polsi del Vikernes, che non sembra affatto uno che per anni non ha sfiorato una chitarra). Dopo la trascurabile introduzione, il riff iniziale che inaugura l'album è un'emozione unica per coloro che hanno aspettato per anni questo momento. “Belus' Dod” è infatti il miglior biglietto da visita che potessimo ricevere: essa riporta alla mente l'epitaffio elettrico “Filosofem”, ponendosi alle nostre orecchie come la perfetta sintesi fra un brano come “Burzum”, per l'alone di invincibile decadenza e l'imponente andatura, ed uno come “Jesu' Tod”, per lo sferragliare spigoloso della chitarra. E poi i piattoni: i piattoni che tornano a schiaffeggiare con pathos tremendo il lento involversi di una colata di distorsioni e riverberi che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica del progetto. La musica di Burzum non è anacronistica, e neppure bieco riciclaggio: è semplicemente fuori dal tempo, sospesa in una dimensione a sé, e si muove con il passo lento del trascorrere dei millenni. Ma per chi si sarebbe accontentato di un banale revival (e per molti già sarebbe bastato!), l'incredibile “Glemselens Elv” sarà una piacevole sorpresa: il brano si candida probabilmente fra i migliori mai scritti dal Conte, e saprà deliziare, nei suoi tormentati 11 minuti, per la sua vena epica, per il suo basso in evidenza, per il suo ritornello declamato con voce straordinariamente pulita, per i suoi “assoli” sfrigolanti che regaleranno veri brividi lungo la schiena dei fan. Forse un brano dai connotati “piccolo-borghesi”, certamente un passo indietro nella discesa negli abissi scavata nella parabola artistica, stilistica ed esistenziale del Nostro, eppure così coinvolgente, dinamico nei suoi “continui” cambi di tempo, così efficace nel rappresentare l'agonizzante viaggio del Vikernes in una veste così fiera e melodicamente matura. Ancora una volta gli adepti dovranno tirare fuori il fido taccuino e prendere appunti!

L'intero album rispecchia i crismi del viaggio spirituale del dio Belus, ed in parallelo del viaggio di Vikernes. Con il brano successivo accediamo ad una fase ulteriore del concept , una fase più caustica, violenta, dove il cammino si fa duro e terribile. Forse i tre pezzi che seguono costituiscono l'anello debole della catena, per lo meno dal punto di vista dell'ispirazione e dell'originalità; un trittico di brani in cui vengono rispolverati tempi maggiormente sostenuti, come a significare l'aspra lotta compiuta dal dio sulla via della resurrezione. “Kaimadalthas' Nedstigning” si apre con i ritmi forsennati di una batteria sparata a mille, e la frenesia di un singhiozzante riffeggiare thrash, che conserva tuttavia l'ossessività della più tipica poetica burzumiana. In verità il pezzo si rivelerà fra i brani più orecchiabili mai scritti dal Nostro, forte di un ritornello macchiato da un oscuro recitato ed un irresistibile mid-tempo centrale che ci consegna "una sorta di post-punk darkeggiante in salsa black-metal". I due minuti scarsi di “Sverddans” sono un omaggio agli ascolti della gioventù del Vikernes, trattandosi di un furibondo thrash/proto-death à la Possessed, mentre “Keliohesten” si apre con un intenso riff che non si sentiva dai tempi di “De Mysteriis dom Sathanas”, andando così a tributare inconsciamente proprio l'antico amico, poi acerrimo avversario, infine celebre vittima Euronymous, a testimonianza dell'indissolubile legame (di sangue) che ancora unisce i due.

Ma a valere il prezzo dei biglietto sono i 20 minuti delle conclusive “Morgenrode” e “Belus' Tilbakekomst (Konklusjon)”, attraverso le quali i tempi si stemperano in una dimensione maggiormente meditativa. Ma che diavolo di finale è? Il Conte stacca il cervello a 15 minuti dalla fine, ma non la spina: la coda strumentale della prima e la reiterante ossessività tematica della seconda sono quanto di più immaginifico ci si possa aspettare da un album black metal. In particolare le molteplici stratificazioni di chitarra della Konclusione ammaliano, ipnotizzano, svelano le prime ed uniche fratture di uno spirito che non pareva essere scalfito, bensì indurito, da 17 anni di prigionia. Un finale che fa emergere prepotentemente l'amore disperato del Vikernes per il suo strumento prediletto, la chitarra elettrica, la quale viaggia distorta come in un truce baccanale sonico imbandito da ipotetici Velvet Underground in versione stra-pagana.

Burzum non si rinnova, quindi, ma continua con ostentazione a perseguire le sue due/tre idee. Risorge tale e quale era, ma puntando all'Infinito. Lasciando indelebile la sua impronta anche sul terzo millennio. E se ho aperto con le parole di Morgan, mi permetto di chiudere con una citazione ben più dotta. E' proprio vero: doveva cambiare tutto affinché non cambiasse niente.

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