E' la solita questione: quella del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

Dobbiamo immaginarci un Varg Vikernes seduto sulla sua buona sedia di paglia, isolato nella sua buona fattoria dislocata nelle lande norvegesi, padre di famiglia, con la sua chitarra elettrica in mano e un tomo di mitologia nordica sul comodino? Oppure l'ex carcerato braccato dai creditori che pubblica in nemmeno tre anni ben tre album, una raccolta di pezzi vecchi riciclati e un libro per saldare i suoi buoni debiti?

Il solito bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: una musica che si evolve e raggiunge un nuovo equilibrio, oppure una musica prolissa, povera di idee, un altro discaccio buttato nel mercato discografico per abbindolare i soliti gonzi che comprerebbero un album di Burzum solo per il nome che si porta sulla copertina?

Esce così l'ultima fatica discografica del Burzumello, e questo almeno è un dato di fatto. Come è un dato evidente il fatto che questo “Umskiptar” sia interamente cantato in norreno e che si ispiri al poema scandinavo “Voluspà”. E che esso porti con sé delle rilevanti novità, per lo meno da un punto di vista formale.

Punto primo: il tema del cambiamento (“Umskiptar” significa “metamorfosi” e su questo tema va a svilupparsi il concept, che intende parlarci dei mutamenti della Natura, e quindi dell'Uomo, e quindi della Vita dell'Uomo).

E' dal 1991, con l'uscita del “Black Album”, che l'universo metallico deve giocoforza confrontarsi con il tema del cambiamento. E niente dall'uscita del “Black Album” è stato più come prima: dover cambiare o rimanere puri? Questa è stata la futile domanda che band e fan si stanno facendo da vent'anni a questa parte. Il metal non è stato più lo stesso dopo che i più grandi (e i Metallica negli anni ottanta sono stati i più grandi) hanno deciso di snellire il proprio sound ed accaparrarsi fette più vaste del pubblico pagante. Ma da quel momento quante grandi formazioni abbiamo perso? Quante di esse hanno finito per cambiar pelle in modo innaturale? E quante altre hanno precocemente fermato il proprio cammino evolutivo per difendere la fede e non deludere i seguaci più conservatori? E cosa c'entra Burzum con tutto questo? Un bel niente, poiché Vikernes, nel suo cocciuto isolamento, prima ancora mentale che fisico (certo la reclusione ha aiutato) è rimasto tale e quale era, e, come già detto nella mia recensione di “Belus”, pur con delle differenze (dettate principalmente da elementi di ordine anagrafico), il Vikernes continua a riciclare se stesso, rimodellando la sua materia artistica in un percorso autistico che non privilegia certo il confronto e lo scambio con il mondo esterno. Vikernes cambia rimanendo se stesso, e in questo frangente il suo isolamento lo ha preservato incontaminato dalle stupide dispute che hanno ammorbato l'evoluzione/involuzione della musica metal degli ultimi vent'anni.

Quasi vent'anni fa il Nostro ha contribuito a creare un nuovo genere musicale, gettando inoltre le basi per diversi ed interessanti sviluppi in seno al black metal stesso, ma scommetto che se gli chiederete cosa ne pensa di tutti coloro che hanno preso ispirazione dalla sua opera, probabilmente egli non saprà mettervi due nomi in fila. Ditegli che esiste da diversi anni un filone denominato depressive black metal germogliato e fiorito per mezzo di band che si rifanno solo ed esclusivamente a lui: ammesso che sappia di quel che si parla, sicuramente vi dirà che non ha niente a che spartire con costoro.

E questo per un motivo in particolare: la sua musica non professa l'annichilimento e sostanzialmente (udite udite) si fa portatrice di un messaggio positivo (se per positivo si intende il messaggio di una musica che intende compiere un atto di astrazione, dissociare l'ascoltatore dalle proprie frustrazioni borghesi e generare la visione di un mondo diverso, diverso da quello che viviamo). In particolare nella sua incarnazione post-carceraria, la musica di Burzum si fa fiera ed epica: non è musica derelitta, non professa l'abbandono e la rinuncia, ma si fa promotrice della tenacia, quasi si potrebbe definire utopica, poiché si emancipa dallo status quo e guarda ad un futuro nel quale, previo il recupero del passato (quello delle tradizioni pagane) ed un ritorno alla Natura, possa trionfare la resurrezione spirituale dell'Uomo. Su quali principi sociologici questa resurrezione debba avvenire e verso quale tipo di società mondiale essa debba portare, non è certo il fulcro della mia riflessione (che non intende soffermarsi sul merito delle posizioni assunte dall'artista, posizioni che fra l'altro non condivido e dalle quali prendo fermamente le distanze). Il senso del mio discorso è che la musica di Vikernes è combattiva, epica, indomita, visionaria, solitaria, come il suo artefice, e che questa musica diviene più che altro un'attestazione di fiera indipendenza, solcando i limiti dell'autoreferenzialità. Se gli chiedete a cosa si ispiri la sua arte, il Vikernes probabilmente vi ricorderà che le sue influenze rimangono legate alla musica classica ed al folclore europeo, anche se poi la sua opera parla il linguaggio dell'heavy metal: la sua grammatica, il vocabolario di cui dispone sono i soliti, cambia ovviamente la prospettiva, la volontà di esplorare nuove aree del suo essere e le modalità di estrinsecare il suo messaggio artistico. Questo è accaduto in “Belus”, questo è stato confermato in “Fallen” e questo si ripete ancora una volta con “Umskiptar” che amplifica gli umori e le intuizioni appena abbozzate nei suoi immediati predecessori per affogarle nuovamente nella rarefazione sonora di un capolavoro già post-black metal quale era stato “Filosofem”.

Sarebbe bello poter vedere Vikernes semplicemente come un povero scemo, ma purtroppo anni di esposizione mediatica ci rendono difficile ogni analisi. Ma se volessimo vederlo solo come un povero scemo, un pazzo alienato, che so, come un Syd Barrett (Dio mi perdoni per l'accostamento!), allora ci renderemmo conto di una cosa pura e semplice (una cosa che fra l'altro non sembrano capire nemmeno i fan più oltranzisti dell'artista): ossia che Vikernes è un poeta.

Vikernes è un povero scemo, e lo si capisce dalle cose che dice o dalle foto che si fa scattare. E' scemo perché ottuso, perché non capisce un cazzo, ma soprattutto perché anche il personaggio che si è costruito non sembra capire un cazzo. Ma sotto alla testa di cazzo batte un cuore evidentemente, e Vikernes rimane un poeta, un poeta del disagio, ed è forse questo il motivo per il quale stiamo ancora parlando di lui nonostante sia una gran testa di cazzo. Ottuso si è detto, e infatti la sua crescita non si evolve arricchendosi di elementi carpiti dal mondo circostante, ma piuttosto procedendo per una progressiva messa a fuoco di quella che di volta in volta appare come la sua materia emotiva.

Ma anche se oggi si mostra indossando una veste diversa, la verità è che niente è cambiato. Ommiodio Burzum non suona più black metal!, ho sentito strillare da più parti. Il paradosso è che invece “Umskiptar” è ancora black metal, perché se è vero che i tempi rallentano vistosamente e che nel complesso si fa un maggiore impiego di voci pulite, il rifferama proferito riafferma più che mai un'identità nata e sviluppatasi all'interno del black metal (seppur in un'ottica post, che è sempre stata prerogativa del progetto fin dalle sue origini). Ma se anche volessimo per assurdo ammettere che questo disco non è black metal (disquisizione fra l'altro alquanto inutile), poco cambierebbe, anzi, potremmo quasi rovesciare la nostra affermazione iniziale e sostenere che Burzum black metal non lo è stato mai. Perché nell'uno o nell'altro caso Burzum è sempre Burzum, un cantautore, e “Umskiptar” è un nuovo saggio descritto nella dimensione atemporale in cui da sempre Vikernes sembra vegetare e in cui ultimamente pare voglia rimanere rinchiuso: la novità è solo formale e sta, da un lato, nella riscoperta di sua maestà scandinava Quorton (poiché “Umskiptar” attinge a piene mani dai Bathory dell'era “Hammerheart”/Twilight of the Gods”) e, dall'altro, nell'approdo ad un uno scarno folclore, intriso di paganesimo, che meno male non è lontanamente accostabile alla robaccia barocca degli album pubblicati dal carcere.

Ma anche in una forma de-elettrificata, la mano di Vikernes rimane sempre la stessa.

Punto secondo: la mano del Vikernes. Forse egli non ne è nemmeno consapevole, ma al momento in cui la sua mano gira in senso orario la manopola del volume della chitarra e l'elettricità si materializza, con l'avvento dell'elettricità si verifica come un'Epifanaia e di colpo e per magia veniamo catapultati nella nota dimensione burzumiana: “Jòln” si avventa sulle nostre orecchie come una colata lavica di distorsioni, riff reiterati ed ossessivi come nella migliore tradizione, i proverbiali piatti schiaffeggiati e un tonante recitato apocalittico che ci porta dentro al concept. Nella strofa successiva irrompono una solido drumming ed una voce distorta (non più il caratteristico latrato da cane castrato dei tempi d'oro, ma un rauco e subdolo sussurro pur sempre riconducibile all'empireo del metal estremo), e già si capisce che Vikernes, seppur in una veste maggiormente melodica, non abbandona il suo modus operandi costituito da due/tre riff per canzone che si alternano fino allo sfinimento. Ma la robusta ripartenza nel finale, che riprende il giro tagliente e sfrigolante (quasi à la Pulp Fiction) impiegato durante il ritornello, ci ricorda un'altra cosa: che il Conte è un maestro e che ci dispiace tanto per gli altri.

“Alfadanz” si apre con un giro di pianoforte mal strimpellato, ma nel complesso il pezzo ha un bel tiro e piace per il suo faticoso procedere, come se il guerriero (tanto per usare un'immagine cara all'artista) annaspasse nel fango, fino all'intenso break centrale di chitarra arpeggiata che ci spiega ancora, zittendo tutti, che la classe non è acqua. Non è forse questa magia? Ma la domanda da porsi è essenzialmente un'altra ed è la seguente: viene l'innegabile prolissità del prodotto bilanciata dai guizzi che il Conte sa pur centellinare lungo le estenuanti lungaggini dei sessantacinque minuti di pallosità elettrificata che è questo “Umskiptar”?

Punto terzo, quindi: la prolissità del Conte. Risposta fulminea: si potrà dire tante cose, belle e buone, sulla musica del Conte, ma certo una di esse si può affermare con vigore, ossia che la musica del Conte non è mai stata facile. E che la sua musica è sempre stata noiosa. Prendete anche i capolavori degli anni novanta, oggi tanto celebrati: non erano anch'essi clamorose mazzate nei coglioni? L'eccessivo minimalismo, la scarsa varietà ritmica, le estenuanti composizioni che ripetono i medesimi temi fino all'asfissia: si dice che proprio questi, insieme alle melodie evocative ed alle atmosfere ancestrali, fossero gli elementi fondanti della formula burzumiana, poi ripresa da una moltitudine di ammiratori. Ma se allora ci è piaciuto, e tuttora continua comunque a non dispiacerci, forse il motivo di cotanto magnetismo nella musica di Vikernes sta senz'altro in una ragione: e questa ragione è che Vikernes è un poeta. E che le magie che in fondo la sua vena compositiva sa sempre elargire valgono bene una musica che certo ama indugiare eccessivamente sulle medesime ambientazioni, senza troppe variazioni. Ma questo “Umskiptar” di variazioni ne ha pure troppe: ha una voce che si assesta spesso sul pulito, ha brani che presentano sovente delle evoluzioni, ha, per esempio, l'imponente riffone iniziale di “Hit Helga Tré”, che nemmeno lascia sfumare il brano precedente per irrompere con magnifica violenza, a metà strada fra i Celtic Frost più sfibrati e i Black Sabbath più funerei. Le nove tracce qui presenti (esclusi intro e outro) hanno invero un loro perché, mutano al loro interno, come mutano nel loro susseguirsi: un cammino che procederà, fra il fragore delle chitarre elettriche, fino ai brani riflessivi della seconda metà dell'album.

Due pezzi assai brevi fanno da boa intorno alla quale l'opera compie il suo cambio di direzione: “Aera”, la più violenta del lotto, non abbandona l'orientamento doom (ma guarda caso l'urlo lacerante di quindici secondi si materializza proprio quando le percussioni decidono di tacere), per poi lasciare spazio all'introduzione parlata di “Heidr”, intermezzo bislacco in cui si alternano ruvidi bassi à la De Mayo e sussulti chitarristici al vetriolo. Il cambio di passo si ha con “Valgaldr”, che nella prima parte recupera gli umori di inizio disco, ma che nella seconda si abbandona alle dissonanze di un infinito arpeggio, piattaforma su cui decolla finalmente il gorgheggiare del Vikernes, presto raggiunto da cori evocativi.

Quel che segue sarà un faticoso percorso verso la luce ed il trittico di brani conclusivo ci mostra ormai un Vikernes nella veste di posato cantautore: “Galgvidr” spalanca le porte di un rito pagano in cui fasi elettriche ed acustiche si susseguono in una spirale ipnotica dall'incedere misticheggiante. Si sta attuando, i effetti, quell'avvicinamento fra Burzum e Blood Axis che ho sempre sognato. Peccato che a guastar la festa giunga “Surtr Sunnan”: così collocato in nona posizione, un brano che niente aggiunge a quanto detto in precedenza, non può che appesantire il tutto e procurare qualche sbadiglio anche a coloro che si erano fissati le fauci con un lucchetto. Il fiero recitato del Conte dominerà quindi fino alla fine, mentre l'elettricità lascerà progressivamente spazio a chitarre arpeggiate che troveranno l'apoteosi nella immensa “Gullaldr” (più di dieci minuti di durata), la folk-ballad che più di ogni altro brano qui raccolto sa spingere la musica di Burzum al di fuori dei confini del black metal conosciuto: un brano che tuttavia ci insegna una cosa, la solita, ossia come il Vikernes acustico in verità non sia affatto diverso da quello elettrico. La sua è infatti solo un'operazione di scarnificazione dei suoni, ma la mano rimane la stessa di sempre, e ne è una prova il fatto che se con l'immaginazione proviamo ad elettrificare il pezzo, non ci troveremo molto lontano dalle evoluzioni solenni di un pezzo come “Dunkelheit” (memorabile pezzo di apertura di “Filosofem”).

L'album si chiude nel modo in cui si era aperto, con il lento battito di percussioni (che fra l'altro erano sparite da tre o quattro tracce) e gli sproloqui conclusivi della voce narrante, lasciandoci, stanchi ed estasiati al contempo, con un quesito inquietante: capolavoro o puttanata colossale?

Insomma, la solita questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

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