Accade, a volte. Quel colpo di culo che ti scaraventa ai piani alti, una coincidenza di eventi che dalla nebbia di provincia ti apre alle splendenti quanto ingannevoli luci della città. Accade che sei un maldestro cantautore e indovini il pezzone dal tiro pop micidiale, su cui il regista più chic del momento ci disegna un capolavoro di videoclip. Accade che la tua musica raggiunga una platea enorme proprio nel momento in cui l’alt-rock all’italiana, diverso ma ormai tanto autoreferenziale da suonare classico, comincia a mostrare la corda. Accade tutto ciò, a volte. Poche volte, forse. Mai, invece, tutto ciò è frutto del caso. Una canzone come "Cosa Mi Manchi A Fare", la più grande ballad d’amore precario dei nostri tempi, non arrivi a scriverla per caso.

Edoardo D’erme, classe 1989, ha gavetta da vendere. Figlio dall’ambiente underground romano (è nato a Latina), inizia a comporre intorno ai vent’anni, milita in sgangherati e orgogliosamente sconosciutissimi complessi noise, prima di fondare assieme a un socio sfigato come lui I Calcutta. Il socio se ne andrà - divergenze artistiche o umane? - Edoardo resterà solo. Calcutta. Con la sua chitarra. E la sua personalissima visione della canzone pop, libera di correre in praterie di poetica deviata, metropolitana, certo, a tratti claustrofobica, ma innegabilmente tendente a un catartico ascetismo. “L’estate a Sabaudia”, nuotare “senza asciugamano”, ricordi in cui rifugiarsi, bagni di malinconia in cui immergersi per poi uscirne espiati. “Ci incontreremo a Venezia / ci sposeremo a Pomezia” - che la provincia cronica è una condizione dell’animo - “ti porterò alle Hawaii” - non è vero, ma ti giuro che lo è - e “ci sposeremo in canoa” - migreremo al largo di questo specchio di acqua torbida che più che un lago è uno stagno. “Soltanto se remi con me”. Sarai al mio fianco?

No, è appena passata “un’altra estate senza te” e ancora “un altro inverno”. “E penso / sempre / maledetta te”. Le tue tracce sono nel fondo di ogni bicchiere, nella cenere di ogni cicca, nel viola battuto del cuore dopo ogni livido. "All’ora di ginnastica, ti incontrai”, ai tempi in cui "una cantina buia dove noi” non ci stava, e potevamo consumare il nostro amore solo nei peggiori catorci a quattro ruote. Con l’odore di merda dell'Arbre Magique a immortalare il tutto in una sensazione acre. Isabella, Amarena, Lucia, Irina, Enrico (quel mio amico), Stella. E Nicole, c’ho fame! Mi parli di salute e poi ci metti il guanciale. Nicole, diocane. Ma ti amo, e vi amo, tutti. “Non ci arrenderemo mai / perchè siamo i dinosauri”. Lasciatemelo credere.

Chitarre in lontananza per memorie estatiche. Mal accordate, ovviamente. Elettrofioriture, scampoli di esistenzialismo in filtro lo-fi. Vene dolenti, su braccia stanche di sollevare il peso della vita, ma che non smettono di puntare altrove. Istinto melodico sopraffino, va detto (Prove? "Pomezia", "Cane", "Amarena" - giusto per dirne tre). Poesia vera, va ammesso, dal dolcissimo gusto fonetico: “le passeggiate che non hai fatto mai / come le canzoni che non ascolterai / le dieci serenate sotto la finestra che non hai” ("Enrico"); “che begli occhi che hai / che coraggio non hai per dir che poi / alle nove tu vai / via” ("Vieni Sola").

Ma alla fine che mi resta? Alla fine resto solo nel buio di questa stanza. Il cane non c’è più ma io sto a casa, mentre tu vieni sempre sola. E gli amici non scaldano un cuore che non può permettersi la bolletta del riscaldamento. Uscirò, un giorno. Ti reincontrerò, ti assaggerò nel sapore del gelato e in quello delle olive. Ti inventerò come mi pare, ché non hai bisogno di mancarmi. Lo fai già, in ogni mio gesto. Se mai lo ascolterai, sappi che ti ho già immortalato in uno disco di merda.

Carico i commenti... con calma