Ci sono le opinioni più disparate sui Clash e su quale impatto e quanta importanza questa band abbia avuto nelle vicende e nella storia musicale e culturale della Gran Bretagna e del rock’n’roll, sulla qualità delle sue produzioni tutte, sulle vere o presunte capacità compositive di due tra i musicisti sicuramente più famigerati di quell’epoca - Joe Strummer e Mick Jones, of course - su quanto il punk sia stato forse tutto sommato solo un grande bluff e una più o meno riuscita operazione commerciale, e su quanto fossero poi alla fine effettivamente “punk” gli stessi Clash. Probabilmente molte di queste opinioni - tutte, se espresse con un minimo di senno e, cosa sempre più rara in quest’epoca di vaporizzazione sintattica e decadenza grammaticale, alfabetizzazione - sono rispettabili e forse poco produttivo, ma sicuramente interessante e infinito argomento di discussione in una di quelle serate buie e tempestose. Quando i fulmini lampeggiano, i tuoni rimbombano e la pioggia viene giù in gocce pesanti come il piombo, dal cielo arrivano frecce sotto forma di pioggia e i tuoni fanno tremare i pilastri del cielo e - andiamo che lo sapete come va a finire! - voi guardate il ciclone scatenato proprio negli occhi e gli dite, “Mena il tuo colpo più duro, amico. Non mi fai paura.”

Comunque non ho visto in giro ragazze cinesi dagli occhi verdi, ma ho perso la testa per una dai capelli rosso fuoco e che si accende quando le parli di “bonifica e salvaguardia del territorio”, ho visto esplosioni - verdi - e gente che entra e esce volando, mentre un caprone dà cornate ad una siepe e le corna gli restano impigliate. Ho visto Chinatown e, sebbene non lo consideri tra i massimi capolavori del genere “hard boiled” e nonostante Jack Nicholson, che pure bene si arrampica sulla Dunaway come Humphrey Bogart sulla interminabile Bacall molti anni prima e Bob Hoskins su Jessica Rabbit qualche anno più tardi, sia tutto sommato meno convincente di Robert Mitchum e di quel grandissimo figlio di puttana di Elliott Gould ne “Il lungo addio”, lo ho sempre trovato un ottimo film. Ad ogni modo e tuttavia, al di là dei falsi moralismi e delle deviazioni e storture di questo fottuto mondo occidentale, le vicende di questo regista autoesiliatosi nella vecchia Europa mi ricordano quelle di uno che agli albori di questo decennio “morì in solitudine” in una località della Cartagine che rese celebri gli Scipioni e che è ancora oggi luogo di culto e meta di pellegrinaggio di qualche dinosauro della politica e indegno rappresentante dell’altrettanto indegno socialismo italiano. Il fatto è che, questa giornata, fuori ci saranno stati quaranta gradi e questa città, inferno dell’olio bollente sulla terra, ci ammazzerà tutti prima di ogni possibile olocausto nucleare e disgrazia atomica, prima che qualcheduno di noi si faccia valere e faccia valere le proprie più o meno ragionevoli ragioni. Ammesso questo possa servire o cambiare le cose. Ammesso ce ne siano.

Ho voluto bene a Joe Strummer. Questo è fuori discussione. Gli ho voluto bene come al fratello maggiore che non ho mai avuto e, giacché mi è difficile, che la mia vita ha preso una brutta piega, ammettere di avere imparato qualcosa da Joe e sostenere una cosa del genere sarebbe persino irriguardoso nei suoi confronti, possiamo dire con assoluta certezza che, quando ero ragazzo, ho passato più tempo a ascoltare e riascoltare “London Calling” - comperato negli anni tre o quattro volte in svariati formati e diverse edizioni e riedizioni - che a leggere di Kant, Hegel e di tutte le Critiche della ragione pura dei miei gatti con gli stivali. Allora come oggi, ero convinto di dovere adempiere nella vita a una tanto grande quanto imprecisata missione che, se pure non avrei mai vinto, mi avrebbe almeno visto finire a testa alta sotto il sole di Città del Messico, davanti al plotone di esecuzione dell’esercito golpista di qualche fantoccio Sergente Garcia centroamericano creato ad arte dai petrodollari del governo degli USA. Il sound dei Clash e le parole di Joe Strummer sembravano essere la giusta colonna sonora di tutta questa storia e trovavo il mio continuo battere la testa in una rivoluzione contro tutto e tutti decisamente e fottutamente punk. Non volevo essere condannato a una vita ordinaria, come quella di tutti gli altri. Io sarei finito prima, e la mia fine sarebbe stata spettacolare. Avrebbe avuto un senso.

La questione comunque è tuttora irrisolta. Sono un inarrestabile romantico o forse più semplicemente un inguaribile stronzo. Avrei dovuto distrarmi dalle mie “rivoluzioni” invitando a ballare qualche ragazza, almeno una, almeno quella ragazza dai capelli rosso fuoco e gli occhi profondi quanto il blu più dipinto di blu del Mar dei Sargassi, ma finora ho preferito buttare la mia vita a lottare contro i fantasmi e i mostri che affollano la mia mente rasentando a tratti la follia più genuina e illudendomi di trovare prima o poi pace nell’uso di psicofarmaci e di camicie di forza.
Tutte le cose non hanno fatto che peggiorare. Le rivoluzioni vere sono tutte belle che andate e anche i moti di rivoluzione della Terra attorno al Sole sembrano essere rallentati quasi come da contrasto ai ritmi frenetici delle nostre città sempre più caotiche, affollate e puzzolenti. Joe Strummer è morto e mi ha lasciato da solo, in perenne attesa della mia esecuzione, come Massimo Lopez, il “cangurotto” che aveva salva la vita grazie a telefonate interminabili in una popolare pubblicità trasmessa dalla televisione italiana negli anni novanta.

Il fatto è che io sapevo che Mick Jones se la passava bene. Da qualche anno ha messo in piedi i Carbon/Silicon, una formazione che ha già qualche disco alle spalle e di cui avevo letto qualche recensione più o meno lusinghiera, ma di cui comunque consideravo “inutile” l’ascolto: come potevano questi Carbon/Silicon avere qualcosa da aggiungere a una storia perfetta, o almeno io la consideravo tale, come quella dei Clash?
Inoltre di Mick Jones si era parlato perché aveva sposato la causa e sponsorizzato - semmai ce ne fosse stato veramente il bisogno - il fidanzato di Kate Moss, che, quando non è troppo impegnato a farsi fotografare e sorprendere mentre fa pubblicamente e sfacciatamente uso di droghe, fa di mestiere il frontman dei Libertines, dei Babyshambles etc etc.
La vita di Mick Jones, che oggi ci appare la controfigura sgraziata e storpiata di Nicholas Cage e veste sul palco come il David Bowie di “Under Pressure”, è una vita ordinaria per una rockstar. Troppo ordinaria. Non fraintendetemi, non voglio il male di Mick Jones - ci mancherebbe! - né lo vorrei condannato a una morte prematura o una vita di eccessi di ogni tipo e troppo stupida, patetica, come quella del citato leader dei Babyshambles. Tuttavia, quando lo scorso giovedì lo ho visto salire sul palco con i suoi Carbon/Silicon mi sono domandato: è giusto che quest’uomo sia sopravvissuto alla sua stessa leggenda, alla storia dei Clash, a tutto quello che questa band ha significato e magari continuerà a significare negli anni degli anni?

Non ho saputo darmi una risposta. Forse preferisco lasciare perdere, preoccupato come sono questa volta di non crearmi ulteriori grattacapi, ma, se proprio vogliamo cercare un parallelo tra le mie vicende e quelle di Mick Jones, pare proprio quest’ultimo se la passi meglio del sottoscritto. Mick Jones, vestito di un completo azzurro, è apparso divertito, in perfetta forma e a suo agio tra latte di moderne bevande energetiche, qualche dj troppo megalomane e bambocci indie-rockers. L’esibizione dei Carbon/Silicon, inserita nel primo dei due giorni della edizione 2010 del sempre meno rock (gli headliners quest’anno erano Fatboy Slim e Jamiroquai…) Neapolis Festival, è durata all’incirca un’ora ed è stata discreta. Troppo discreta, addirittura “di mestiere”, confermando nei fatti tutto quanto di superfluo avevo pensato di questa formazione che pure vede, tra gli altri, alla seconda chitarra la presenza dell’ex Generation X Tony James. Il pubblico, oltremodo irritato dalla precedente esibizione dei Velvet, una band storicamente votata all’inutilità, ha apprezzato e si è addirittura scatenato sul finale, quando Jones ha riproposto due suoi storici cavalli di battaglia, “Train In Vain” e la sputtanata “Should I Stay or Should I Go”. Naturalmente avrei preferito ascoltare qualche altro vecchio brano dei Clash piuttosto che questi due, ma Mick Jones non è mai stato Joe Strummer e comunque, quando pure ha suonato “Police On My Back”, il pubblico si è mostrato poco sensibile e abbastanza disinteressato.

E’ stato proprio questo, invece, il momento di maggiore riflessione e interesse del concerto dei Carbon/Silicon. Mentre le ultime luci della giornata lasciavano spazio alla sera ho voltato lo sguardo verso lo Stadio San Paolo - la struttura che ha ospitato il festival, la Mostra d’Oltremare, è infatti sullo stesso piazzale dove è collocato l’impianto sportivo che qualcuno vorrebbe intitolato al leggendario Attila Sallustro - e il pensiero a qualche inutile domenica pomeriggio passato sugli spalti a guardare ventidue stronzi in pantaloncini correre dietro a un pallone attaccati a qualche logica più o meno rigorosamente tattica e funzionale al bel gioco. Soprattutto ho pensato ai soliti nazifascisti del cazzo che urlano slogan del tipo “Poliziotto primo nemico!” e inneggiano allo scontro con le forze dell’ordine per praticamente tutti gli interi novanta minuti più recupero e poco importa se sul campo a indossare la maglia della propria squadra del cuore ci sia Ruud Krol, Baroni, Fusi, Renica, Renato Buso, Corneliusson o Edinson Cavani e quale sia l’andamento della partita. Questa gente va allo stadio, come in qualsiasi altro posto, solo per vomitare merda.
Inutile domandarsi stavolta quanto questi slogan abbiano una qualche attinenza con il gioco del calcio perché la risposta è evidente - nessuna - e richiederebbe poi una più ampia discussione e riflessione su circostanze che poco hanno a che vedere con la questione in oggetto. Resta tuttavia la terribile constatazione dell’ulteriore e costante abbrutimento della nostra società, del vuoto che si è venuto a creare nelle teste delle ultime generazioni e del fatto che, se tutto sommato i poliziotti si possono considerare nel complesso storicamente stronzi, questa volta non siamo messi meglio nemmeno dall'altra parte della barricata. Allora condanniamo la società moderna, questo mondo occidentale privo di veri ideali, vuoto di contenuti e fatto di storture e miserabili e pericolose deviazioni create dai mostri della televisione e dei mass media, che bombardano peggio che un sottomarino nucleare nelle acque del Mar Baltico durante la Guerra Fredda. Ma nemmeno questa volta, tuttavia, possiamo giustificare, assolvere e scaricare dalle proprie responsabilità tutta la generazione precedente. Questi giovani nazifascisti di ogni estrazione sociale possibile sono loro figli e frutto della loro diseducazione. Sono figli dei fallimenti e delle frustrazioni di un mondo precedente e di persone che a un certo punto hanno staccato la spina e hanno smesso di lottare contro tutti i fantasmi e i mostri che affollano le loro teste, le nostre teste e la nostra vita di tutti i giorni. Perché così è più facile vivere, perché in fondo qualcuno non ci ha mai creduto veramente.

E allora io e Mick Jones pareggiamo uno a uno, perché tutto sommato nella mia lucida follia e nel mio perseguire rivoluzioni forse impossibili io non ho mai mollato, ho stretto i denti e mi sono forse preso qualche calcione sugli stinchi, ma un goal alla fine lo ho comunque fatto e esco dal campo a testa alta.

Peccato la partita si sia giocata a Napoli e le reti fuori casa nelle competizioni europee valgano doppio.

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