Molto spesso, quando ci si prepara ad ascoltare un disco, specie di una band di cui non si conosce nulla, la copertina può fornire molti segnali su ciò a cui le nostre orecchie stanno per andare incontro. Segnali riguardanti il genere proposto, i suoni, il cantato, o persino le atmosfere racchiuse nelle composizioni. Se l'artwork di un disco, ad esempio, ci mostra un immaginario fantasy, con dragoni, spade e guerrieri assortiti che sembrano usciti dalla serie animata de "I Cavalieri dello zodiaco", è quasi certo che stiamo per avventurarci tra i meandri di un disco power/heavy dal sapore epico, battagliero. Se fosse un disco brutal death, beh, lì potete sbizzarrirvi con l'immaginario più sanguinario e truculento in vostro possesso: cadaveri, zombie, mutilazioni e depravazioni di ogni tipo. Insomma, come ben sapete, ce n'è in tutte le salse, per tutti i gusti.

Ma esistono anche copertine che, al contrario, ci impediscono di fare qualsiasi idea sul contenuto musicale. Immagini astratte, criptiche, che possono racchiudere diversi significati o forse nessuno, interpretabili secondo la sensibilità e le idee di ciascun osservatore. Disegni sfuggenti, dai contorni sfumati, il cui senso non si rivela del tutto.

Prendete ad esempio l'immagine di copertina di "Vitrun", seconda prova in studio degli islandesi Carpe Noctem. É, indiscutibilmente, un occhio umano. Certo però che è ben strano per essere un semplice bulbo oculare. Non c'è carne umana intorno, ma solo strisce e nervature bianche e nere. L'espressione sembra quella di una persona tesa, sul punto di crollare psicologicamente, colta in un attimo di delirio mentale, forse è uno rinchiuso in un manicomio, chi può dirlo? E l'iride? Vogliamo parlare dell'iride? Assomiglia ad una scalinata discendente, ad una serie di gradini che, passo dopo passo, ci conducono, a mo' di spirale, verso la pupilla bianchissima. Una finestra su un universo sconosciuto, forse parallelo, dove ogni logica umana viene fatta a pezzi, sminuzzata e poi messa in un pentolone a bollire. Disagio psicologico? Stress metropolitano? Desolazione? Fuga da una realtà troppo difficile da affrontare? Deliri apocalittici su un futuro terrificante per l'umanità? Non è ben chiaro (oddio, vista l'epidemia di Covid-19 attualmente in atto forse è anche fin troppo chiaro, ma va bene lo stesso, dettagli...).

Quando poi, spiazzati ed incuriositi al tempo stesso, ci si appresta a posizionare il disco sul lettore cd ed a premere il tasto Play, ecco che ogni certezza viene frantumata, e la vostra coscienza ribaltata come un calzino. Le prime note di "Söngurinn sem ómar milli stjarnanna" non lasciano scampo, ti prendono con sè e ti trasportano oltre quella pupilla bianchissima, quella finestra sull'ignoto.

Si apre così il manicomio musicale imbastito dai Carpe Noctem, un mid-tempo roccioso, granitico, sul quale si distende un tappeto di chitarre black metal dissonanti, sbilenche, che disegnano ghirigori melodici (o a-melodici) irreali, come se provenissero da un quadro di Escher. Il brano poi, tra blast-beats fulminei e riff al fulmicotone, prende strade e direzioni diverse, ma il discorso musicale è fluido, scorrevole ma sempre al limite dell'assurdo, come il monologo di un pazzo internato in una casa di cura, un discorso chiaro e comprensibile solo a se stesso. Solo dopo la metà del brano c'è una sorta di rallentamento, una distensione dei toni e delle atmosfere, a tratti quasi psichedelica, liquida, sognante. Ma è solo il preludio all'ultimo minuto, dove i nostri riprendono la melodia iniziale, tramortendo definitivamente l'ascoltatore già al finire della prima traccia. E il primo stadio della follia è già bello che superato.

Si procede con la successiva "Upplausn", luogo ed atmosfera cambiano sensibilmente. Un'introduzione fumosa, nera, funesta, apre le porte ad un immaginario urbano desolante. Una fitta nebbia circonda i palazzi e i grattacieli di una città in rovina, abbandonata, immersa in un buio perenne. Mura rovinate, macchine distrutte, ponti che crollano, puzza di fumo e di esalazioni industriali, crepe profondissime squarciano le strade e le automobili, quasi, ci finiscono dentro. Vetri rotti ovunque, nessuno è lì con voi, siete completamente soli. Siete a Silent Hill, forse?

Un suono lontano, distante, una luce rossa in mezzo a tanto nero, vi dà un segnale. E voi dovete scappare via da quell'inferno urbano. Parte una corsa in treno disperata in mezzo alla città, su di un ponte prossimo a crollare in mezzo alle macchine abbandonate, all'immondizia, allo sfacelo più totale. Un brano chilometrico, nove minuti vissuti alla velocità della luce, un brano atmosferico e notturno, un treno sonoro dal quale potete vedere, attraverso i finestrini rotti, il disastro raggelante di una civiltà metropolitana al suo atto conclusivo. Fanno capolino echi sonori di band come Deathspell Omega e Blut aus Nord (quelli di "The Work Which Transforms God" o "The Mystical Beast of Rebellion"), ma le ritmiche sono più quadrate, più dritte, più frenetiche. Il treno ad una certa inizia a rallentare e si ferma in mezzo al nulla, siete fuori dalla città, ed una fitta nebbia di echi chitarristici vi conduce, piano piano, verso il prossimo paesaggio sonoro...

"Og hofið fylltist af reyk" è il terzo tassello di questo lavoro, il brano cardine, il più complesso e schizofrenico. L'introduzione è malinconica, dimessa, l'andamento è lento, ai limiti del doom più caligonoso. Poi, senza preavviso, il brano parte, un andamento sbilenco e dissonante come sempre, chitarre che emettono singulti a tempo di batteria sui quali si adagia la voce del cantante, un growl acuto, a tratti quasi declamatorio, come in tutto il resto del cd. Poi il pezzo accelera, accelera, accelera sempre di più, e verso la metà, impazzisce completamente in un turbinio di assoli schizzati e blast-beat insensati fino all'esplosione della bomba atomica: BOOOOOOOOOM!!!!!!! (Sì, sembra che il disco sia effettivamente saltato in aria, e voi con esso, ma tranquilli, in realtà siete ancora lì, vivi e vegeti).

Segue una tregua, il cantante riprende fiato, si sente che inzia a cedere, il clima di tensione è quasi insostenibile. La batteria disegna un ritmo tribale che aumenta sempre più d'intensità con l'andare avanti dei minuti, le chitarre emettono riff acidi, stridenti, come uno sciame di zanzare che procede a zig-zag, velocissimo fino allo scioglimento finale, quando la guerra è finita, tutto è stato distrutto e non restano che pochi detriti, fuliggine e arti umani rotti, sparsi un po' qua e là... e di nuovo, una coltre di fumo si abbassa su questo scenario devastato.

"Hér hvílir bölvun" è la quiete dopo la tempesta. É il momento di riprendere fiato dopo tutto quello che avete appena visto e sentito. Un arpeggio geometrico e allucinato, sorretto da pochi colpi di batteria, ci dà il benvenuto. Di nuovo è notte fonda. Fa un po' freddo e fuori in città non c'è nessuno. Solo l'arpeggio e la batteria ci accompagnano in un reticolato sonoro astratto, difficile da comprendere. Poi piano piano i toni aumentano, sempre di più fino a sfociare in un altro tempo medio, lugubre e tortuoso, ennesimo sintomo del DNA impazzito del gruppo. Segue poi un ferale turbinio di riff e blastbeats di matrice scandinava (forse l'unico momento del disco in cui il richiamo a band più ortodosse del genere, come Mayhem e Marduk, fa capolino), dai toni epici e sinistri al tempo stesso. Di nuovo, a metà, il brano sembra interrompersi per dare inizio ad un altro inquietante crescendo, come un rituale occulto, una processione, una declamazione profetica su ciò che seguirà, chiudendo così il brano con un senso di suspense.

E dopo l'intermezzo acustico di "Úr beinum og brjóski", si giunge al capitolo conclusivo di questo assurdo viaggio, gli ultimi, epici 11 minuti di "Sá sem slítur vængi flugunnar hefur náð hugljómun". Un brano che è la summa di tutto quello che avete sentito fino ad adesso, un capitolo riassuntivo di tutte le puntate precedenti che chiude in maniera egregia questo lavoro: chitarre stridenti, dissonanze schizzate, accelerazioni fulminee, ritmiche dispari, o meglio impossibili, urla ed atmosfere ultraterrene si alternano senza sosta fino al momento conclusivo, dove un arpeggio di chitarra, placido ma straniante, ci accompagna fino alla porta d'uscita di questo vero e proprio manicomio sonoro che è "Vitrun", e ci saluta.

Si esce così da questi 52 minuti di musica con la sensazione di aver capito tutto e niente al tempo stesso. Vi rimane addosso un che di malsano, di sinistro, come se la realtà attorno a voi non sia più quella che conoscevate un'ora fa. I paesaggi sonori del disco vi si sono infilati sotto pelle, e ora vedete tutto con occhi molto diversi. Forse è proprio questa la capacità dei Carpe Noctem: ribaltare il nostro concetto non solo di musica, ma anche di realtà. Tutto dentro questo disco è stravolto e manomesso fino ad assumere le fattezze di qualcosa di indefinibile; le nostre ansie, le nostre nevrosi, le nostre inquietudini prendono forma e ci inghiottiscono per poi sputarci nuovamente fuori.

Questo e molto altro è "Vitrun". Il gruppo di Reykjavik, dopo quel gioiellino che risponde al nome di "In Terra Profugus" (2013), ci regala un'altra perla di black metal nerissimo, evoluto, progressivo, avanti anni luce rispetto a tutto quello che passa quotidianamente ogni giorno in convento. Certo, si tratta di un prodotto estremamente elitario, adatto forse solo a chi apprezza le stramberie in musica o le avanguardie metal attuali. É necessaria infatti una notevole apertura mentale per apprezzare appieno questo lavoro, ma se avete la pazienza e la voglia di calarvi in atmosfere sinistre e paradossali, "Vitrun" sicuramente fa per voi. Un ottimo colpo assestato dall'etichetta nostrana Code666 Records.

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