Nel 1991 i Cathedral debuttavano con "Forest of Equilibrium", l'album doom metal per eccellenza, una delle opere più pesanti ed opprimenti che il genere umano abbia mai partorito. Tempi esasperanti, chitarre come macigni su di noi e una voce cavernosa ai limiti dello sfinimento esistenziale. La gota di Lee Dorrian, fiacco e desolato, sulla croce di marmo bianco.

Continuare su questa strada sarebbe stato insostenibile, quanto per chi suona come per chi ascolta. E così nel 1993 i Nostri decidono di darsi una scossa, come è giusto che sia laddove si è stati capaci di raggiungere un limite e si comprende che continuare a costeggiare quel limite diverrebbe una lenta deriva verso uno sterile manierismo. Un passo necessario, artisticamente inevitabile, che se da un lato, come sempre succede, fa perdere il fascino innegabile che l'estremo porta con sé, dall'altro ci consegna una band in forma smagliante, rilucente di una rinnovata freschezza compositiva e che decide coraggiosamente di valicare i tenebrosi confini del doom ed aprirsi verso nuovi orizzonti musicali.

E se il calderone da cui i Nostri decidono di attingere è ancora rigorosamente settantiano, in questo "The Ethereal Mirror" non si vanno a celebrare solamente le debordanti gesta di Iommi e compagnia funerea (punto di riferimento imprescindibile). In "The Ethereal Mirror" possiamo imbatterci in sonorità acide, visioni psichedeliche, momenti progressivi (se si pensa alle evoluzioni imprevedibili di certe composizioni), tutti elementi che si sposano d'incanto con i riffoni schiacciasassi di Garry Jennings e le allucinanti scenari illustratici dal nero cantore Dorrian. Con passo elefantesco i Cathedral si addentrano dunque nel mondo colorato della psichedelia, perdendo un poco della loro peculiare pesantezza, ma rimanendo ampiamente letali per i nostri neuroni, come se la montagna che ci aveva schiacciato fino a poco prima, si fosse adesso liquefatta e ci inondasse di sgargiante marmellata fluorescente. Come se l'oscuro mammut di un tempo venisse ora riverniciato a nuovo da hippy goliardici in preda a lisergiche visioni.

Le note liquide di "Violet Vortex" ci aprono alla nuova dimensione della Cattedrale, ma subito il reverendo Jennings, alla stregua di un poco raccomandabile pifferaio magico, ci benedice con un maestoso riff, richiamo irresistibile per noialtri topastri doom-dipendenti. Ma è solo l'inizio: a mettere tutti in riga è l'opener "Ride", che ci assale con quel "vam va vam va vam va vam" che diverrà il riff simbolo della produzione futura della band, sempre più orientata verso un granitico rock da baraccone. Un circo pazzesco di freak e mostruosità assortite, il mondo dei Cathedral, dove le chitarre bastonano e la voce raschiante di Dorrian, perfettamente a suo agio nella nuova veste di trucido tamarro degli anni settanta (oyeahhhhhhhhh!!!!!!!!), graffia con energia, ma senza perdere quel piglio teatrale e visionario, quel gusto per l'eccesso e il grottesco, quell'ironia mescolata all'agonia, che collocano Dorrian stesso fra i più carismatici ed originali personaggi della scena.

Pezzi dal groove irresistibile come questo o come l'ultra classico "Midnight Mountain" si alterneranno così ad asfissianti reminiscenze del passato, che vanno e vengono per tutta la durata del platter: "Enter the Worms", "Grim Luxuria", "Jaded Entity", "Ashes You Leave" ci riportano ai desolanti scenari del primo inossidabile album, anche se è oramai chiaro che il doom dei Cathedral non è più calibrato per sondare i recessi più neri dell'anima, ma per avviluppare l'ascoltatore in una melma celeste e lillà, una sorta di blob appiccicoso e zuccheroso dagli effetti stordenti e stonanti.
Ma non solo: nei sette minuti di "Fountain of Innocence", una semi-ballad visionaria impreziosita dai vocalizzi effettati di Dorrian, i Nostri scoprono le carte e svelano il loro amore (per altro mai celato) verso certe atmosfere fiabesche e decadenti ereditate dalla tradizione progressive made in seventies. Nel refrain centrale, si materializza perfino un Dorrian così pulito che stentiamo a riconoscerlo (e tanto meno a immaginarcelo come il protagonista della rivoluzione grindcore compiuta qualche anno addietro con i Napalm Death!).

Ma stiano pure tranquilli gli estimatori del doom senza compromessi, perché i quasi nove minuti di "Phantasmagoria", scritta ed eseguita in preda agli acidi (a detta dei diretti interessati), ci riporta alle efferatezze delle origini (basti pensare al becero urlo iniziale): continui cambi di tempo, riff macinati senza soluzione di continuità, l'espressione massima di un doom in stato di disgregazione. A conclusione del tutto, i nemmeno due minuti di "Imprisoned in Flesh", soffice ninnananna acustica dove il sussurro di un Dorrian dolcissimo (???) chiude beffardamente questo gioiello di follia elettrificata.

Dal successivo "The Carnival Bizzarre", Dorrian e Jennings, forti di una rinnovata e compatta formazione, sapranno meglio mettere a fuoco le idee, assestandosi su un sound più catchy e maturo, se si vuole, ma ahimè maggiormente prevedibile.

Chiarendo fin dall'inizio l'intrinseca insuperabilità di un'opera come "Forest of Equilibrium" e l'equilibrio formale dell'appena citato "The Carnival Bizzare", questo "The Ethereal Mirror" rimane a mio parere il diamante più splendente e grottesco della carriera degli inglesi, un labirinto fantastico in cui sarà un piacere perdersi per tutti coloro che continuano ad avere un debole per quella indimenticabile stagione del rock che va dal 67 al 73, isola felice e pregna di rosee aspettative, fin quando è arrivato quell'orco di Brian Eno a portarci via tutto, piatti, cuore e sudore!

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