La Napoli sperimental-progressiva d'inizio '70 annovera fra le sue perle nascoste una formazione straordinaria, sostanzialmente unica e libera da ogni sospetto di possibile derivatività; formazione protagonista di un rarissimo, meraviglioso episodio di "musica contemporanea" in senso lato, sconvolgente ancora oggi per originalità e coerenza d'insieme: parlo del Cervello di Corrado Rustici e del compianto Gianluigi Di Franco, gruppo nato sul finire del 1971 e ammirato dal pubblico "alternativo" in occasione di importanti manifestazioni dedicate alle "nuove leve", non ultimo il III Festival d'Avanguardia e Nuove Tendenze tenutosi proprio a Napoli, e in cui i Nostri furono presentati dagli Osanna di Danilo Rustici, fratello di Corrado.

Si badi a come, in sede di presentazione del gruppo, io abbia usato un articolo singolare ("il" Cervello anzichè "i" Cervello) e tutt'altro che casuale è questa mia scelta: più che mai nella musica di questa ineguagliata compagine, infatti, è possibile cogliere quella sensazione unica di "individualità collettiva" che si realizza quando tutti i musicisti di un Ensemble pensano, eseguono ed interagiscono come rispondessero ad una sola volontà ordinatrice: non composito e variopinto collage di più timbri e colori, la musica del Cervello si esprime nelle forme di una perfetta e indissolubile alchimia sonora in cui "tutto richiama tutto" ed ogni elemento si lega al successivo nella scansione immaginata di un "flusso continuo", senza un inizio né una fine. Dall'attento ascolto della vorticosa orgia sonora imposta dagli strumentisti prevale un ricorrente senso di straniamento, di dolce smarrimento fra le pieghe di melodie severe, spettrali e angosciose a tratti, depositarie di un misterioso e sfuggente fascino ancestrale; immergersi fra le complesse trame e i giochi armonici del gruppo produce la stessa sensazione che si immagina producesse lo stordente vino diffuso nell'Antica Grecia, preparato con uva passita e allungato con l'acqua per temperarne gli accenti forti in un gusto fruttato, dolciastro.

E proprio agli umori e alla cultura della Grecia Arcaica e Classica guardano i Nostri, come evidente dal titolo dell'opera in questione, unico album del Cervello, pubblicato nel 1973 dalla Dischi Ricordi: significato primario, letterale di "mèlos" è "canto", e con "canto" i Greci intendevano tutto quanto riguardasse la sfera dell'espressione "lirica" dell'individuo, come anche l'ambito della "poiesis" canoro-musicale; il titolo della maestosa composizione che apre l'album, "Canto Del Capro", costituisce un importante indizio e conferma la presenza di tali riferimenti colti nella prassi creativa del Cervello: "capro" in greco è "tràgos", e dire "canto del capro" equivale a dire "tragedia" ("tragodìa), poiché si ritiene che i vincitori dei primi agoni tragici ricevessero in dono un capro, così come si pensa che gli stessi coreuti indossassero maschere dalle vaghe sembianze caprine. 

Il riferimento alla Grecia non si limita al solo ambito lirico-concettuale, poiché l'immaginario delle antiche festività a sfondo dionisiaco e dei culti misterici sa tradursi alla perfezione in una proposta musicale in cui prevale, a mò di collante fra i timbri degli altri strumenti, l'uso del flauto, strumento prediletto dall'elegia e dalla tradizione melica in generale (a suonarlo sono persino quattro musicisti su cinque, ovvero tutti con la sola eccezione del batterista Remigio Esposito, creando complicati intarsi su cui si adagiano formidabili parti vocali in tempo dispari); a dir poco fondamentale è il contributo del leader Corrado Rustici, chitarrista d'intelligenza e cultura superlative (qualità che confermerà nei Nova), "anima" del Cervello in una costante, maniacale, quasi schizofrenica alternanza di sonorità elettriche, acustiche e "filtrate" (largo è il ricorso alle sovraincisioni, per un suono volutamente disorientante che si sviluppa su più dimensioni, spesso difficili da separare e distinguere). Filtrata e amplificata è spesso anche la voce di Gianluigi Di Franco, vocalist di straordinaria padronanza interpretativa, capace di giocare su modulazioni armoniche difficili, spesso dissonanti, in generale finemente elaborate e ponderate; notevoli i poderosi interventi del sax in parte "crimsoniano" (ma più ovvi sono forse i parallelismi con Elio D'Anna) di Giulio D'Ambrosio.

Doveroso segnalare, ed è forse l'aspetto più importante ai fini di una profonda comprensione dell'opera, la clamorosa assenza delle tastiere, quasi nell'ottica di una velata (e parzialmente polemica) presa di distanza da certo Prog "canonico" di matrice anglosassone, che delle tastiere aveva fatto una componente irrinunciabile, costitutiva delle "nuove sonorità".

Viceversa, in "Melos" l'Inghilterra è lontana, così come sono lontane le fantasiose saghe di ascendenza celtica tanto care a gran parte del Prog Sinfonico: si repira l'aria del Mediterraneo, di un Vicino Oriente ancor più "vicino" di quanto la denominazione stessa non dica, e (in parte) spunti di Jazz atonale sapientemente mescolati a forme musicali popolari, caratteristiche della tradizione italiana.

"Canto Del Capro" si apre fra soffusi e onirici spunti flautistici incaricati di preparare l'ingresso "arpeggiato" (e da brividi) di Corrado Rustici, prima del solenne, ieratico recitato da rito sacrificale che da solo vale l'intero pezzo: "Magica danza mi porterà il seme, vivido intruglio disseta la mente"; si entra quindi nell'entusiastica frenesia di un'atmosfera popolata da satiri e menadi danzanti, fra invasati vocalizzi sottolineati dai piatti della batteria, fino a che la composizione prende definitivamente corpo attraversando passaggi armonici incredibili per complessità ed imprevedibilità: altissima resta la tensione interpretativa, fino al termine.

Ugualmente articolata, con la voce di Di Franco definitivamente in primo piano, è la successiva "Trittico", fino ad un incredibile acuto amplificato del cantante che conduce a un'esplosione furibonda (e sorprendentemente controllata) di suoni stridenti, in cui ad orchestrare le danze è la chitarra di Rustici: sbalzi d'umore variabile si susseguono in nevrastenica alternanza.

Più dolce, direi quasi serenamente "bucolica" la più breve "Euterpe", non a caso dedicata alla musa della lirica detta "auletica" ("aulòs" in greco è "flauto"): grande l'assolo di chitarra elettrica ad impreziosire questo magico idillio.

Note scandite dal basso ed echi chitarristici introducono la composita "Scinsione", forse il brano più marcatamente Jazzistico in quanto a filosofia esecutiva, sospeso fra precarie geometrie strumentali e la consueta (straripante) verve creativa del gruppo. In "Melos", come già in "Euterpe", tornano a farsi apprezzare i suggestivi fraseggi eseguiti al vibrafono da Rustici, per un'altra parentesi a prevalenza flautistica e sostanzialmente rilassata, sognante. Sulla stessa lunghezza d'onda (con sfuriata finale al fulmicotone della chitarra su energico accompagnamento della batteria) si rimane in "Galassia", prima del commiato affidato alla breve, sussurrata "Affresco".

Cinque stelle per un album magnifico, unico in un panorama italiano in cui merita di ritagliarsi un posto di ineguagliato splendore.

 

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