Era da secoli che volevo scrivere questa recensione. Probabilmente, è sempre tutta colpa di quella solita fissazione freudiana che mi porta a buttar giù una nuova recensione ogni volta che ascolto qualcosa di nuovo, di meritevole, di genuinamente e ingenuamente figo e poi, guardandomi attorno, scopro che nessun italiano si è preso la briga di scriverci su due righe, o magari anche solo di ascoltare l’album in questione. Forse è meglio così. Se mi chiedessero “Come vorresti che i posteri ti ricordassero su Debaser?”, io risponderei in questo modo, proprio. “Voglio essere ricordato come quello che recensiva la roba che non se la cagava nessuno ma poi, ogni tanto, tra quei pochi che la leggevano ce ne stavano uno o due che scoprivano qualcosa di nuovo e a me sembrava di aver reso questo mondo migliore di come l’ho trovato”. Aaaah, si, così! Vabbè. Sto divagando.


Non si sa granché di questi Childs, ma forse è proprio questo che li ha resi così affascinanti alle mie orecchie. Così come i russi The Same But 100 Times Better, gli inglesi When They Know You They Will Run o gli svedesi Ef (tra i pochi a potersi permettere una pagina su wikipedia), anche i Childs appartengono di buon grado a quella schiera di band che suonano post-rock atmosferico influenzato dallo shoegaze, che magari scopri per caso su youtube, credi che facciano sempre la stessa roba trita e ritrita e poi improvvisamente ti ritrovi ad ascoltarli estasiato per ore. Si, direi che questa definizione possa rendere abbastanza bene il concetto.


Non so perché fossi convinto che provenissero dal Giappone. Sarà perché la loro estetica dei suoni me li fa assomigliare a dei Mono in un momento di slancio mistico-religioso, sarà perché la voce registrata tra le tinte chitarristiche di “Mariana” parla in giapponese e mi rimanda insistentemente agli Envy, sarà perché il titolo “Yui” mi ricorda inevitabilmente il nome della giovane e piacente cantante di Fukuoka, sarà perché la copertina la vedo come una rappresentazione astratta del profondo concettualismo Hellokittyano, o forse semplicemente credevo che suonare certe cose venisse naturale più al popolo nipponico che a quello di altri paesi. Fatto sta che ho perso un granchio grosso come una casa. I Childs, infatti, provengono dalla calda Guadalajara, nel cuore occidentale del Messico, e hanno nomi che, tra accenti e virgulilla, lasciano poco spazio all’immaginazione.


 Fatto sta che, al di là delle facili disquisizioni geografiche e stilistiche sul combo, le canzoni contenute in questo platter non solo scorrono che è un piacere e non annoiano quasi mai per tutta la loro durata (cosa più unica che rara in dischi del genere), ma lasciano qualcosa anche dopo il loro passaggio, sia nelle orecchie che nel cuore. Semplici giri armonici e ambientali si adagiano su note e atmosfere talmente dolci e soffuse che sembrano scritte da un’orchestra natalizia in pieno trip da eccesso di glucosio (nel senso buono!). E non solo. Il gusto melodico dei Childs è talmente ricercato ed elegante che, in certi frangenti, fa assomigliare i loro brani più alla colonna sonora di qualche capolavoro cinematografico che non alle composizioni di una qualsivoglia band emergente della scena-post rock e shoegaze.


Quello che stupisce di più di quest’album e che lo rende davvero degno di nota, in effetti, è proprio questa raffinatissima ricerca melodica, questo buon gusto che avvolge ogni singola composizione di una grazia quasi celestiale. Del resto, la band non si accontenta di usare semplicemente chitarra, basso e batteria, ma nemmeno si lancia nel violino o nella tromba come fanno i nostri Giardinoni nazionali. Piuttosto, a farla da padrone sono le tastiere e i suoni elettronici che infarciscono l’opera di atmosfere eteree e sognanti che cullano, rapiscono e portano via con sé.
Proprio quello che lo shoegaze dovrebbe fare, se mi è concesso dirlo.
Tali atmosfere a volte sembrano così dolci da risultare quasi ingenue, tanto è il garbo e la delicatezza che ci mettono nel trascinare l’ascoltatore in una dimensione magica, onirica, simile alla sensazione che si ha quando si sogna di volare nel cielo e di scappare dai dolori e dalle pene terrestri. Anche la voce non è mai invadente e, nella sua avvolgente ripetitività, sembra sempre essere più un supporto al viaggio che non un elemento che cerca di padroneggiare nella bolla sonora. Tant’è vero che, anche quando la voce è solo quella del cantante principale, sembra lo stesso di ascoltare un coro. Un coro di angeli probabilmente, o qualcosa del genere.


Lungi da me fare un track-by-track di un’opera del genere, che per essere apprezzata fino in fondo andrebbe ascoltata di fila e tutta d’un fiato, supini su un bel prato verde ad ammirare il cielo azzurro e i gabbiani che svolazzano qua e là. Dico solo che alcune tracce colpiscono più di altre per un gusto melodico particolarmente intenso. Dico solo che 4 canzoni mi hanno particolarmente colpito: la title track “Yui” è un puro e dolcissimo trip ambient/shoegaze per nulla ostico, che riassume da subito tutte le intenzioni dell’album; la forma canzone di “Marisal” ricorda certo post-rock più di maniera ma, anche per questo, più efficace; le tastiere di “Oliver”, spezzate da semplicissimi giri armonici di chitarra, ci fanno ricordare quanto sia semplice infondere emozioni con umiltà; infine, la già citata “Mariana” si regge su pochi accordi di chitarra acustica che, immersi nelle sue atmosfere elettroniche e corali, incanta come non mai. La mia descrizione dei singoli brani, tuttavia, termina qui. Lo scopo di questa musica, e quindi di ogni singolo strumento, non è quello di far ricordare un brano piuttosto che l’altro, ma bensì quello di avvolgere i sensi in maniera totale, e proprio sotto questo metro di giudizio andrebbe giudicata. Chitarre soffici, tastiere delicate, voci angeliche pur nelle loro tonalità così squisitamente bassa, elettronica paffuta ed elegante, atmosfere eteree, un vero e proprio sogno ad occhi aperti.


Non so se i Childs possano considerarsi una vera e propria promessa del post-rock americano e internazionale, e tantomeno so se con i prossimi album potranno consacrarsi fino a diventare dei punti di riferimento del genere. L’unica cosa che so (e che mi interessa) è che ascoltare “Yui” è stata una vera e propria esperienza, il che mi fa capire quanto di buono e interessante esiste ancora nelle intricate maglie dell’underground. Certe band andrebbero scoperte, valorizzate e custodite gelosamente proprio quando nessuno sembra volersi occupare di loro; e se lo scopo ultimo di generi come il post-rock atmosferico e lo shoegaze è quello di rapire l’anima e il cuore dell’ascoltatore e di fargli dimenticare tutto per un po’, allora questo scopo i Childs l’hanno capito fin troppo bene e l’hanno centrato in pieno.


Una piccola gemma da scoprire, un po’ per volta.  Rilassatevi, chiudete gli occhi e abbandonate i vostri sensi a questa umile, misconosciuta e meravigliosa band messicana.

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