La natura isolata e ferita, prima di tutto. Il suo respiro e la sua forza che vanno e vengono. Le sue fragilità pari alle nostre. Ma non solo. La nostra natura di uomini, anche. E la limpida, essenziale, profonda spiritualità che mette in rapporto le due nature. Da questo incontro, da questo centro ipnotico, caldo ed elettrico -le cui origini sono da ascriversi tanto all’immensità del tempo e dello spazio quanto al più piccolo dei nostri segreti (se ben custodito)- nascono opere come Dizzy Seas di Chris Bathgate.

Al netto delle esperienze giovanili (il gruppo folk-bluegrass Ambitious Brothers), delle cassette e dei cd che il nostro registrava fin da quando aveva 16 anni (ovvero a partire dal '98), rispetto ai precedenti album pubblicati a suo nome (ultimo Salt Year, 2011) questo Dizzy Seas (2017) rivela il lato più profondo della personalità musicale di Chris Bathgate. Direi quasi parte del suo subconscio. È il risultato degli ultimi cinque anni di escursioni a piedi “su entrambe le coste, vivendo a intermittenza in una capanna nei boschi del Michigan del sud”, come ha raccontato lui stesso in una recente intervista a Outline. La raccolta è un’esplorazione della speranza, che muove dalla riflessione solitaria per arrivare a celebrare la vita e le sue difficoltà. Tutte le canzoni suonano come se Chris stesse facendo un passo indietro rispetto al mondo che ha sempre abitato, onorando e allo stesso tempo criticando sé stesso e l’industria.

Un cerchio che si chiude, insomma. Un po’ come il video di “Northern Country Trail”, una teatrale e attuale rappresentazione del suo processo creativo. Ideato e in parte girato da Bathgate, il video riprende i luoghi in cui la canzone è stata scritta e registrata. Quando gli è stato chiesto da NPR di descriverlo, il musicista ha detto che “mentre la canzone di base è strutturata su tensioni romantiche, un altro lato di essa riguarda la realtà, la percezione e la memoria”. In generale, in un’intervista a Bob Needham di Pulp ha poi spiegato che “queste canzoni non sono mai esclusivamente su un paesaggio o una località. Sono su un più generico “luogo”. La melodia e le parole di N.C.T. mi sono arrivate durante un’escursione lungo il North Country Trail nell’Upper Peninsula in Michigan. È stato il tipo escursione in cui la tua mente si estranea dal posto in cui sei”. Sempre a Bob Needham: “In Illinois, quando ero un ragazzino, sono stato esposto a molta musica tradizionale folk e old-time. Ho sperimentato una comunione coi vecchi tempi ancora più profonda e più forte in Michigan. Così il mio interesse verso i violini potrebbe non essere sbocciato com’è stato senza quel trasferimento. Le mie esperienze con incredibile gente folk, traditional e old-time ha realmente tenuto vivo quell’interesse e permesso che la conoscenza aumentasse. Io non sono il miglior musicista tradizionale, ma in quei circoli e quelle jam è stata estesa a me una grande gentilezza”.

Ci sono quindi l’iniziale “Water”, una lenta marcia agreste che lentamente sfuma verso atmosfere country, accompagnata dalla voce maschia di Chris e da un sottile palpitare che sembra appartenere a dimensioni oniriche, antiche, originarie: “A volte i miei pensieri/ sono come luci sull’acqua”. “O(h)m”, un instant classic southern-folk dalle tinte decise, quasi giocose, polveroso e inselvatichito da quell’ Ohm ripetuto più volte che dà un senso di liberazione a là Into the Wild e che precede la breve sfuriata finale. La bellissima e malinconica “Come to the Sea”, pochi accordi di chitarra ripetuti ipnoticamente e il tentativo -anche qui evidente- di sottrazione, alla ricerca di una purificazione spirituale non troppo distante da quella dei primi Bon Iver ("la maggior parte della musica tradizionale, per noi, è come il mostrarsi dell'essenza. È la documentazione delle sottigliezze dell'esistente"). “Beg” riabbraccia il country-blues più energico e profondo, scarnificandolo e riducendosi all’essenziale. Forse una delle migliori del lotto, capace di sorprendere con i suoi controtempi, i suoi accessi di rabbia gioiosa, potremmo chiamarla così, e l’elegante pianoforte nel finale che accompagna alla successiva “Hide”. Musica per spazi aperti, per cuori colmi, per anime ricurve, consolazione per una nuova generazione di cinici, tristi e distaccati romanticoni, che hanno capito -senza rassegnarsi- come va il mondo e quanto siamo soli, quanto è andato perso. “Northern Country Trail” si concede una lunga introduzione quasi prog, prima di sfociare in una ballata a cavallo tra dolcezza e vaga tristezza, distanza e vicinanza, al riparo da qualsiasi sorpresa. “Dizzy Seas” -probabilmente la più rock- con il suo incedere all’inizio quasi orientaleggiante si dimostra capace di sfumature emotive che vanno dall’attesa, a un leggero senso di sorpresa, all’immancabile catarsi tipicamente americana di quei violini blue-grass sospesi sopra i campi di granoturco di Pecatonica (“dopo la fine delle elementari la mia famiglia è andata a stare in una casa di campagna tra i campi di granoturco di Pecatonica. Dovevamo guidare il trattore fino a scuola durante la settimana del ballo di fine anno. Con il senno di poi c'era davvero poco contatto con il mondo esterno, a parte la televisione. Era un posto strano e magico per crescere"). Si arriva infine all’unica collaborazione del disco, “Low Hey” (con Tunde Olaniran), e -passando per la chitarra nervosa di “Tintype Crisis”- all’epilogo di “Nicosia”.

Un album controtempo e pure modernissimo, che richiama echi antichi e il declina in modi tanto semplici -in apparenza- quanto sorprendenti lungo queste 10 canzoni. Capaci di visitare i luoghi della musica tradizionale americana per dargli nuovi nomi. Per vedere altri occhi negli occhi di persone ormai dimenticate. Dare voce alle loro voci, farsi forza per loro.

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