Excusatio non petita, accusatio manifesta: invoco perdono al signor Steve Shelley, martire involontario e indifeso di una crociata (verbale) verso gli "infedeli" Two Dollar Guitar. Fedifrago e dispettoso, il collettivo di Tim Foljahn s'arrampica sul palco di Galleria Toledo e – irriverente – abbatte mura, cambia colore alle pareti, disloca la mobilia.

Cambia le carte in tavola, passando dalle francesi a quelle napoletane. D'altra parte, la scenografia (siamo nel cuore dei virulenti Quartieri Spagnoli) si presta ad inganni. E così si viene dispensati di 60 minuti abbondanti di rivisitazioni, riarrangiamenti, recuperi e scarti di un pattern sonoro che in origine ha (aveva) osato spingere alcuni ad accostare il songwriting del nomade di stanza ad Hoboken all'opus di divinità olimpiche quali Nick Cave, Leonard Cohen e Scott Walker. Tutt'altro (accusatio manifesta, appunto). Non è un bene, neppure un male forse.  In fondo, non capita tutti i giorni ritrovarsi sotto casa il batterista dei Sonic Youth…

Come Chris Brokaw, poi. L'anima slow-core e acid blues di Codeine e Come apre la serata con un set di una quarantina di minuti, acustico fino all'osso (accompagna una voce morbida e rassicurante solo con una sei corde folk ed un tamburello a pedale), palesemente e dichiaratamente ispirato al bufalo canadese (Brokaw non ha mai fatto mistero della sua idolatrìa per Neil Young), proponendo e magari rilanciando estratti dal suo ultimo lavoro solista,
"Incredible Love". Una decina di scarne ma avvolgenti ballate nel solco della migliore tradizione americana; che gridano però vendetta, chè la scelta di rinunciare al "fattore E" alla lunga penalizza e livella una produzione da storyteller comunque dignitosa. E non è un caso che i primi, sentiti applausi della platea esplodano al culmine della cover della gloriosa "I Remember" dei Suicide, a cui prendono parte proprio Shelley e Foljahn innervando con elettricismi e percussioni a mitraglia un giusto e fedele omaggio alla band di Alan Vega e Martin Rev.

Una breve escursione nei minati campi punk che – magari inconsciamente – ha convinto il sodalizio a tre a piantare la bandiera dell'anarchia sul suolo del secondo "highlight" della serata: il (dis)atteso show della chitarra da un paio di dollari. L'avvio (ma finanche l'immediato seguito) è disarmante: una eco di grunge riverbera tra le fila del teatro, Shelley inizia a maltrattare piatti, rullante e timpano, Brokaw ritrova al fine la sua miglior collocazione, quella di bandmate, e le baritonali corde vocali di Foljahn fanno la loro comparsa, salvo poi venir obnubilate da un mixing non perfetto (o, più goffamente, ritrattesi da sè,  timide come sono). Il risultato è che dei testi, della loro comprensione… beh, manco a parlarne. Ed è qui che ci si gioca l'intero progetto, quella filologia cantautoriale onnipresente nelle incisioni in studio (e per la quale è noto ed apprezzato l'allampanato Tim) ma non pervenuta alle raffinate estetiche del pubblico assiepato e raccolto in cima a via Montecalvario. De facto, i tre spendono un'ora della lora esistenza lanciandosi in una jam pura come la neve, lunga un'ora e dove a stento si rintracciano le impronte digitali. E, quando t'accorgi che la strada sporca e sudata del folk delle origini sembra esser di colpo imboccata, a tradimento ecco fare capolino il lancinante e dissacrante bis psichedelico, furioso, pazzoide e sgangheratamente post-rock che chiude l'esibizione.

E adesso vado a metter su Daydream Nation…

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