Trovare un gioiello perduto o più semplicemente riscoprirne uno dimenticato sortisce più o meno sempre lo stesso risultato: l'entusiasmo di riappropriarsi di qualcosa di preziosissimo, di poterlo di nuovo esporre all'ammirazione del mondo. L'archeologo e il critico d'arte potranno permettersi di riscrivere la storia; anche il musicologo potrà riportare alla gloria pagine quasi del tutto dimenticate (basta pensare a cosa successe negli anni '20 con l'opera di Vivaldi, fino ad allora ridotto ad un ricordo piuttosto pallido). Il rock, però, è tutto un altro universo, e per quanto piacevole possa essere ritrovare una gemma oscura, a suo tempo rimasta inosservata, rimane la consapevolezza che tanta scoperta servirà a ben poco: difficilmente una casa discografica ben distribuita si prenderà la briga di ristamparla e in genere si continuerà ad ignorarla, fino a farla ripiombare nel dimenticatoio da cui ci si era illusi di poterla salvare.

Gli americani Chyld, che nel 1988 incisero il loro primo ed unico album, non sfuggono a questa maledizione, ed è un vero peccato, perché "Conception" è un'opera straordinaria, che a tratti non è un errore definire capolavoro in virtù della bellezza delle melodie, della grande qualità compositiva e della spiccata originalità della band. Capitanato dal giovane chitarrista/cantante John Joseph, sorta di enfant prodige già notato da Mike Varney (mentore di tutti gli shredder degli anni '80), dopo i primi demo all'insegna del più schietto hair metal, il gruppo vira infatti in territori musicali inaspettati, un po' come se i Motley Crue o i Def Leppard avessero subito una consistente sferzata progressiva inglobando influenze che vanno dai Led Zeppelin ai R.E.M., dai Rush agli U2 in un contesto comunque di grande coerenza, e anticipando nelle sonorità gruppi del grunge ancora di là da venire (in particolare i primi Pearl Jam e gli Alice in Chains).

"Conception" si mostra in tutta la sua bellezza fin dal primo brano, "Traveler", boogie supersonico al limite del southern rock con una strizzatina d'occhio agli Zeppelin, che la band, però, modella in continuazione fra cambi di tempo tanto inaspettati quanto felici. I brani si introducono poi in un brillante hard rock progressivo che però non ha nulla di sinfonico o magniloquente, ma è tale proprio per l'uso complesso ed originale degli elementi base del blues rock più classico abbinati ad una sensibilità estremamente moderna. E' ciò che succede in "What You Came For", concentrato di vaghi ricordi stoner-sabbathiani e riff delicati, con la chitarra distorta al minimo ed armonie vocali tipicamente west-coast. Sulla stessa strada si pone "Marion (The Walker)" con i suoi riff orientaleggianti, i begli assoli, le strofe dal suono già proiettato verso gli anni novanta.

Si recuperano atmosfere seventies con gran gusto, e i brani successivi confermano i buoni presupposti. Se "Tomorrow" (che inizia come un falso live) è il brano più vicino al class metal degli anni '80, "The Tree Song" non sfigurerebbe in "Physical Graffiti" dei Led Zeppelin, a partire dal riff presentato in apertura dalla chitarra acustica, dal ritmo movimentato ed energico su cui si stende la vocalità delicata (anche se a tratti un po' acerba) di John Joseph.

E' a questo punto che l'album trova il suo climax in due brani che avrebbero meritato di fare la storia del metal di fine anni ottanta. Dopo un'introduzione degna dei Pink Floyd di "Whish You Were Here", "November" inizia come brano acustico; gli arpeggi delle chitarre gli danno un'atmosfera quasi indiana e straordinariamente intima. All'improvviso la canzone subisce un'accelerazione che può lasciare sbalorditi, ricordando allo stesso tempo i primissimi U2, i Led Zeppelin e i Rush (a dir la verità il brano non sarebbe sfigurato in "Snake and Arrows" di quest'ultima band), fino al finale quasi inatteso, sapientemente lasciato in sospeso.

"Far Away (From Yesterday)", secondo episodio di questo fantastico dittico, è una traccia invece particolarmente vicina ai Rush rivisti, però, in versione bucolica e malinconica, come se la band canadese si fosse trasferita nella stessa provincia americana ritratta in film come "Gummo" o "Mean Creek". Riff a volte decisi, altre delicatissimi, precisi ricami di chitarra, melodie particolarmente efficaci si fondono in un crescendo di grande intensità e di deciso stampo progressivo, cosa che sorprende ancora di più se si pensa che il brano non subisce sostanziali cambi di ritmo.

"Conception", brano eponimo, chiude la raccolta nel segno di un heavy metal moderno e dinamico, con una nota questa volta decisamente inquietante, quasi sinistra. Di regola tanta grazia dovrebbe corrispondere almeno allo status di "band da culto". Invece, sotto le mani dell'etichetta New Renaissance (già ai tempi famosa più che altro per la generale mediocrità delle sue proposte musicali), i Chyld sono diventati degli emeriti signori nessuno, mal distribuiti, mal promossi e alla fine travolti dal fallimento, l'anno successivo alla pubblicazione dell'abum, della stessa casa discografica. Oggi non rimane altro che cercare e cercare fino a scovare il modo per ascoltare questa manciata di ottimi brani (a chi scrive ci sono voluti vent'anni). Forse che la rete possa (finalmente) cambiare qualcosa?

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